Fare e credere
Predicazione su Giacomo 2, 14-26
Solo per grazia – solo per fede. Così crediamo come protestanti di essere salvati. Così lo ha proclamato al mondo, tanti anni fa, lo stesso Martin Lutero. Dio non si lascia manipolare dalle buone opere né corrompere dall’acquisto di indulgenze. Il suo amore e la sua grazia non possono essere meritati da nessuno: sono un dono. Eppure, nel brano della Lettera di Giacomo che abbiamo appena ascoltato, troviamo parole che sembrano contraddire radicalmente questo principio, oggi considerato un pilastro della dottrina evangelica.
Potremmo riassumere così il passaggio di Giacomo: Solo chi fa il bene è riconosciuto come persona giusta. A prima vista, le posizioni di Giacomo e Lutero – e, prima ancora, di Giacomo e Paolo – appaiono inconciliabili.
Per Giacomo, infatti, la fede senza le opere è morta: una fede priva di azioni concrete non può salvare, contraddicendo così la famosa affermazione di Paolo ai Romani: «Riteniamo che l’uomo è giustificato per fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rm 3,28). Paolo, nel suo scritto, spiega che nessuno può diventare giusto davanti a Dio osservando scrupolosamente la Legge di Mosè. La giustizia e la grazia di Dio sono state donate a tutti attraverso la morte di Gesù sulla croce: un dono che gli esseri umani possono solo accogliere, per pura fede in ciò che è accaduto in Galilea.
Le false dottrine che circolavano a Roma in quel tempo contrastavano violentemente con questo messaggio, seminando confusione tra i primi cristiani. Paolo scrive loro che le leggi divine – quelle che il popolo conosceva dai cinque libri di Mosè – non sono state abolite, ma il loro mero rispetto non basta per ottenere la salvezza. E, proprio come Giacomo, anche Paolo cita Abramo come prova della propria tesi. Come è possibile, allora, che due autori usino la stessa storia per dimostrare affermazioni apparentemente opposte?
La risposta sta nel contesto. Né Giacomo né Paolo conoscevano esattamente le parole dell’altro: vivevano in luoghi diversi, rispondevano a domande diverse poste da comunità diverse. Eppure, se li leggiamo con attenzione, i loro scritti non si contraddicono, ma si completano. Basta osservare il significato che ognuno dà alla parola “opere”. Giacomo parla delle azioni concrete di chi ha già accolto la fede e, grazie a essa, è stato salvato.
Paolo, invece, scrive ai Romani delle “opere morte” – cioè quelle compiute senza fede, per mero adempimento legale – e delle “opere della Legge”, che non possono scaturire da una vera fiducia in Gesù Cristo e nella redenzione operata dalla sua morte. Lo stesso Paolo, del resto, in altri passi della Lettera ai Romani menziona le “buone opere” (proprio quelle di cui parla Giacomo), distinguendole chiaramente dalle prime.
In altre parole: nessuna opera, per quanto nobile, può costringere Dio a concedere la sua grazia. Ma chi ha ricevuto questo dono e l’ha accolto nel cuore non può fare a meno di tradurlo in azioni.
È come un bambino che desidera con tutto se stesso un regalo: per quanto si impegni, non potrà mai meritarselo veramente. Quando il dono arriva, però, la sua gioia più grande sarà condividerlo con gli amici. Se il bambino si limitasse a parlarne senza mostrarlo, nessuno gli crederebbe; ma se lo porta con sé o ne mostra una foto, la sua storia acquista credibilità. Così accade con la fede: le parole da sole non bastano, servono segni tangibili.
Torniamo a Giacomo: «Tu hai la fede, io ho le opere. Mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,18). E ancora: «Come il corpo senza lo spirito è morto, così la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Chi si limita a parlare di carità ma si chiude in casa, indossando paraocchi e vivendo secondo il principio «prima io, poi il diluvio», non potrà mai sperare che la sua fede da sola gli apra le porte della salvezza eterna. Una fede fatta solo di parole vuote è, nel vero senso della parola, «molto rumore per nulla».
Se guardiamo le cose da questa prospettiva, le opere assumono un ruolo nuovo: sono l’espressione vivente della fede. Le buone opere non possono generare la fede; e chi le compie senza credere può forse ingannare gli altri, ma non Dio. Ma chi crede autenticamente è spinto dalla sua stessa fede a operare il bene. Ciò che facciamo influenza il modo in cui gli altri ci percepiscono – un principio valido in ogni ambito, dalla sfera privata a quella pubblica. Un padre che maltratta moglie e figli può ripetere all’infinito «vi voglio bene», ma quelle parole suoneranno vuote, crudele beffa. Allo stesso modo, un religioso che copre abusi nella sua comunità, invece di indagare per tutelare le vittime, non potrà mai convincere nessuno di agire per il bene altrui o di essere degno di guidare una Chiesa moderna.
«Come il corpo senza lo spirito è morto, così la fede senza le opere è morta». Il brano si chiude con questa frase, che rimane difficile da accogliere. Ci sono infatti persone che non possono compiere grandi gesti di bontà – perché malate, o perché lottano ogni giorno per sopravvivere. A loro non si può chiedere l’impossibile. Ma chi può fare qualcosa, dia voce alla sua fede, riempia di vita il messaggio di Gesù facendo il bene.
Jens Hansen
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