Giobbe e la sofferenza
Sermone su Giobbe 14, 1-6
Giobbe lo conosciamo tutte e tutti. E’ l’incarnazione dell’essere umano che soffre, colpito da colpi bassi del destino. Quanto radicale è la sofferenza di quell’uomo. Niente fa immaginare un destino così crudele all’inizio del racconto quando leggiamo: C’era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest’uomo era integro e retto; temeva Dio e fuggiva il male. Giobbe era ricco, pio e ringraziava Dio per tutto ciò che aveva. E poi le catastrofi. Prima sono i buoi e gli asini, poi le pecore, le capre e i cammelli. E alla fine, il colpo più duro: i figli. I suoi 10 figli diventano vittime di una catastrofe naturale.
E’ possibile sopravvivere un tale colpo senza morire di dolore? Giobbe incassa, incassa un colpo dopo l’altro con una forza interiore inimmaginabile: Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo tornerò in grembo alla terra; il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore.
Arriva un altro attacca a Giobbe. Viene colpito da un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi alla sommità del capo. E anche adesso non perde la sua fede: Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo di accettare il male?
Tre amici gli fanno visita. Vedono il suo dolore e si siedono con Giobbe per terra. Non dicono niente. Tacciono per 7 lunghi giorni. Alla fine tutti e quattro sono esausti. Giobbe si sfoga, da spazio alla sua disperazione, alla sua rabbia, alla sua solitudine, al suo dolore. E da spazio alla sua ira contro Dio che gli ha procurato tutti questi guai.
Adesso non abbassa più il suo capo, ora protesta, lancia delle accuse pesanti contro Dio che tratta così male gli esseri umani. Il pio Giobbe non si fa tappare più la bocca.
Quando, da giovane, ho letto questo brano per la prima volta non potevo crederci di trovare parole così dure contro Dio nella Bibbia. Non potevo immaginare come e perché queste parole sono state scritte e tramandate. Non capivo nemmeno gli amici nel loro tentativo di difendere Dio che poi rendeva ancora più difficile la situazione di Giobbe.
Oggi, quasi 50 anni dopo la prima lettura di questo libro e con un po’ di esperienza di vita e 33 anni di ministerio pastorale, sono invece grato per queste parole. In esse trovo un permesso, anzi un invito a tutte le persone sofferenti di non accettare umilmente il dolore, l’ira e le tante domande, ma di urlare, di lanciare grida verso e contro Dio.
Perché dovremmo essere più pii del pio Giobbe?
E’ questo il senso profondo del nostro brano: esso è un invito di portare a Dio tutto ciò che ci rende difficile la vita. La brevità e la fragilità umana per esempio: L’uomo, nato di donna, vive pochi giorni ed è sazio d’affanni. Spunta come un fiore, poi è reciso; fugge come un’ombra, e non dura. Così lo dice Giobbe. E noi sappiamo di che cosa parla. Forse ancora di più quando ci troviamo in ospedale.
Ma non sono sempre le grandi crisi della vita. L’attacco può venire in mezzo alla nostra vita quotidiana e pungere il nostro cuore: quanto corre il tempo, siamo già a novembre. Manca poco per l’inverno. Quanto velocemente è passata l’estate. Dov’è la mia vita? Mi scorre fra le dita. E ci sarà il giorno in cui tutto è finito.
L’inno 345 del nostro innario lo dice così: I nostri dì terreni d'affanno e duol son pieni, qui tutto è vanità; fuggevole passaggio è il breve nostro viaggio che s'apre sull'eternità.
Forse sceglieremmo oggi delle parole diverse, ma il lamento per la vita che ci scorre fra le dita è attuale come quello di Giobbe.
Forse siete sorpresi che Giobbe nella sua sofferenza si lamenta proprio della brevità della vita. Perché per molti sofferenti è un sollievo sapere che il tempo passa e che quindi anche i giorni della sofferenza sono contati.
Ma così non è per Giobbe. Forse perché la sua delusione è più grande della sua stanchezza. Forse perché ha troppe domande aperte e perciò grida per avere delle risposte. Forse perché si aspetta altro da Dio e perciò se la prende apertamente con Dio:
_E sopra un essere così, tu tieni gli occhi aperti e mi fai comparire con te in giudizio! Chi può trarre una cosa pura da una impura? Nessuno. Se i suoi giorni sono fissati, e il numero dei suoi mesi dipende da te, e tu gli hai posto un termine che egli non può varcare, distogli da lui lo sguardo, perché abbia un po’ di tranquillità e possa godere come un operaio la fine della sua giornata. _
Il fatto che Dio abbia creato la nostra esistenza con limiti fragili può già essere causa di tristezza e malinconia. Ma fa anche parte della nostra vita che il limite di 70/80 anni non è nemmeno sicuro. Può andare molto peggio, vedi Giobbe: perso tutto, perso i figli, colpito da una brutta malattia. E gli amici non sono solidali con Giobbe: “E’ colpa tua, Dio avrà le sue ragioni ...” Ma Dio le ha, le sue ragioni?
E’ proprio qui il centro dei dubbi di Giobbe: “Dio, ma che cosa hai veramente in mano contro di me? Il fatto che sono un essere umano e come tale pienamente peccatore? Non puoi pensarlo sul serio! Tutti gli umani sono e fanno così! Fa parte del nostro modo di vivere. E’ normale che talvolta le nostre azioni sono di dubbio valore. E’ normale che non sempre riusciamo a risolvere i nostri conflitti in modo degno. E’ normale che non sempre riconosciamo il male e di conseguenza non lo evitiamo. E’ normale che la nostra cerca di senso talvolta ci può portare a drogarci. Tu, Dio, tu dovresti sapere meglio di noi quanto siamo imperfetti e peccatori. Perché non accetti che siamo così? Perché sorvegli ogni nostro passo? Perché ci valuti con una misura impossibile? Perché ci colpisci con sofferenza? Non mi dire per insegnare rispetto verso di te!”
Cosa potrebbe dare una mano a Giobbe nella sua crisi con Dio? Gli vorrei tanto dare una mano. Una mano diversa da quella martellante degli amici. Lo vorrei fare quando oggi incontro i tanti Giobbe del nostro tempo. Una mia amica pastora da circa 8 anni cappellana di un ospedale scrive: Giobbe, lo trovo oggi nella madre nell’oncologia infantile che dice: ‘non torturare mio figlio’ pensando a Dio. ‘non so dove ho sbagliata, ho cercato di essere una buona madre. Ma tu ci dai un colpo dopo l’altro. Fai soffrire nostro figlio. Non gli hai nemmeno dato la possibilità di andare a scuola. Alle fine ce lo togli. Non è giusto.’ E mia amica continua: Vorrei dare una mano a questa madre. Ma cosa dirle? Non posso mica dire: ‘Dio non è come pensi, non è un tiranna. Queste sono le tue immagina che nascono dalla tua paura, dal profondo della tua anima, ma Dio non è così.’ No, sempre mia amica, queste cose non le posso dire ad una persona sofferente. Teologicamente potrebbero pure reggere le parole, ma la realtà non cambia.
Ma dove è Dio in tutto ciò? Giobbe ha trovato una via non facendosi tappare la bocca e non facendosi correggere dagli amici. Giobbe ha dato voce alla sua disperazione, alla sua rabbia ma anche alla sua sete di senso.
Infatti, ci volevano tante letture di Giobbe per capire il suo desiderio ardente, il desiderio che Dio lo incontrasse in modo diverso. Ci sono tanti tu in questo libro e nel lamento di Giobbe. Tu, Dio, da te aspetto tanto. Tu, Dio, spiegami. Tu Dio, fammi vedere il tuo volto.
Forse Dio ascolta meglio le parole della nostra disperazione di quanto noi pensiamo. Alla fine Dio si avvicina a Giobbe e crea una fede in Dio che fa dire a Giobbe: Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere.
Certo, questa fede non cambia la vita come una bacchetta magica e la realtà di sofferenza non viene spazzata via. Ma essa mette tutto in relazione alla realtà che è più grande e ci fa capire che vediamo solo una piccola frazione della realtà, perciò Giobbe confessa: E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio.
Alla fine possiamo dire con Paolo: l’amore avrà l’ultima parola, tutto sarà amore, l’amore scioglierà tutti i nodi della vita. E, mentre siamo per strada talvolta dobbiamo litigare forte con Dio, ma è proprio per amore che lo possiamo fare.
Jens Hansen
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