Non il sangue, non il DNA, ma ...

Sermone su Marco 3,31-35

Quando l’uomo viveva ancora in comunità di cacciatori e raccoglitori, la vita familiare – almeno come la intendiamo oggi – praticamente non esisteva. Erano le tribù, i gruppi, a prendersi cura dei bambini. C’era una sorta di sistema di assistenza condivisa: tutta la comunità era un punto di riferimento per il bambino.

Con il tempo però, le cose sono cambiate. A un certo punto è diventata la famiglia più ristretta – e in particolare la madre – ad avere il ruolo centrale nello sviluppo dei figli. Questo modello, in linea di massima, è rimasto fino ai giorni nostri.

Certo, anche la nostra società si è evoluta. Oggi, ad esempio, esiste in alcuni paesi il congedo parentale sia per le madri che per i padri – anche se questi ultimi lo sfruttano ancora poco. Inoltre, i bambini possono andare al nido già sotto i 3 o addirittura sotto i 2 anni. L’educazione al di fuori della famiglia diventa così un tema sempre più importante. E c’è chi – non solo tra i sociologi – si chiede: fino a che punto un bambino può avere molteplici figure di riferimento senza che questo lo confonda o lo danneggi?

Di Gesù, purtroppo, sappiamo poco sulla sua infanzia. I Vangeli non ci dicono molto. Se seguiamo Matteo, Gesù avrebbe passato i primi anni in Egitto. Dopo la morte di Erode, torna con i genitori in patria. Ma la sua infanzia rimane avvolta nel mistero. Luca racconta solo un episodio, quello del dodicenne nel tempio – e poi, silenzio.

Eppure, già lì si intuisce qualcosa che poi diventerà evidente nel passo evangelico di questa domenica: Gesù aveva una figura di riferimento ulteriore, oltre ai suoi genitori e fratelli. Una figura che allarga il concetto stesso di famiglia. Questa figura è Dio – che lui chiama suo Padre. Certo, oggi non ci sorprende: siamo abituati a pensare a Gesù come Figlio di Dio. Ma come dev’essere stato per la sua famiglia accorgersi che il proprio figlio prendeva sempre più le distanze? Che si faceva delle idee sue? Che stava seguendo un cammino che nessuno riusciva veramente a capire? Come si sente un padre che si ritrova all’improvviso a fare la figura del terzo incomodo? O una madre, vedendo che suo figlio si espone pubblicamente al rischio di essere preso per pazzo religioso? O i fratelli e le sorelle, che vedono Gesù preferire la compagnia di pubblicani e pescatori invece di condurre una vita “normale” con loro?

Il Vangelo di Marco, ad esempio, ci mostra chiaramente il disagio e le incomprensioni che la famiglia di Gesù ha dovuto affrontare, quando si è resa conto che quel ragazzo aveva ricevuto una chiamata particolare. E forse noi possiamo capirlo meglio se pensiamo ai nostri figli, quando crescono. Quando iniziano a prendere le distanze, a fare scelte che non capiamo, magari che ci preoccupano. Quando pensiamo: “Ma dove sta andando?”, “Ma che sta facendo?” E cerchiamo, con tutte le buone intenzioni, di riportarli alla “ragione”, anche se hanno 10, 20 o – come Gesù in quel momento – 30 anni. Chi può biasimare Maria e i suoi figli per aver tentato di farlo?

Ma Gesù approfitta proprio di quel momento – dell’arrivo della sua famiglia – per dire chiaramente come la pensa lui su cosa sia la famiglia. E dice: «Chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, quello è per me fratello, sorella, madre». Una frase che all’epoca doveva suonare fortissima! Non è il sangue a determinare chi fa parte della mia comunità. Non la discendenza, non la nazionalità, non il ceto sociale, neanche la religione! E nemmeno l’osservanza di regole o tradizioni religiose! Conta solo una cosa: seguire la volontà del Padre.

E qui, naturalmente, sorge la domanda: qual è questa volontà? Beh, su questa domanda si sono divise tante persone. Si sono formate correnti, dottrine, si sono costruiti sistemi teologici complicati, e perfino guerre si sono combattute. Forse, anche in questo caso, dobbiamo avere uno sguardo ampio, aperto. La volontà di Dio, lo vediamo in Gesù, ha a che fare con l’amore. Quell’amore di cui lui parlava sempre e che lui stesso ha vissuto in prima persona.

Un amore che non imprigiona, ma libera. Che non distrugge, ma costruisce. Che non giudica, ma accoglie. Che non mette paletti, ma apre strade. Può sembrare poco, ma in realtà… è tutto.

Esporsi a questo amore, fidarsi, lasciarlo agire nella propria vita – questo è ciò che ci rende ancora oggi una famiglia. Indipendentemente da dove veniamo, da chi siamo, da quello che abbiamo fatto o non fatto. L’unico “criterio” è: vivere secondo l’amore di Dio, così come ci è stato mostrato da Gesù.

E tutto questo va contro quelle idee nazionaliste o “etniche” che oggi, purtroppo, stanno tornando in tanti Paesi d’Europa. Non c’entrano niente con un’idea cristiana di “Occidente”. Perché chi fa parte della famiglia di Dio non si decide col DNA.

Jens Hansen Mastodon

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