Jens

Pastore delle chiese metodiste di Udine e di Gorizia

Predicazione su Atti 3,1-10

Versione audio in Italiano

Versione audio in Twi

Salve fratelli e sorelle,

oggi voglio raccontarvi la mia storia. Sì, la mia. Sono quello che tutti chiamano “lo zoppo davanti alla porta Bella del tempio”.

Sono zoppo dalla nascita. Non so cosa voglia dire correre libero, saltare, camminare senza dolore. Ogni giorno qualcuno mi porta qui, davanti alla porta del tempio. Qui sto seduto, con la mano tesa. Aspetto… Aspetto qualche moneta, qualche attenzione. Aspetto che qualcuno si accorga di me.

Ogni giorno, il sole batte sul mio volto, e sento la polvere della strada tra le dita dei piedi. I bambini corrono davanti a me ridendo, e io… io posso solo guardarli. Le loro voci mi raggiungono, ma non posso giocare con loro. Le preghiere dentro il tempio salgono verso il cielo insieme al fumo dei sacrifici e io resto qui… invisibile, in silenzio. La mia vita è fatta di attese. Guardare la gente entrare nel tempio e non poter andare con loro fa male. Sento che non appartengo. Sono invisibile. Solo.

Un giorno vedo due uomini salire verso il tempio. Li conosco: sono Pietro e Giovanni, in altri tempi sono saliti insieme ad altri e a Gesù.

Istintivamente allungo la mano. Sto per chiedere elemosina, come faccio sempre. Ma loro non si limitano a guardarmi di sfuggita. No. Pietro mi fissa negli occhi. “Guardaci!”, mi dice.

È la prima volta che qualcuno mi guarda davvero. Non come uno zoppo, non come un mendicante, ma come persona. Sento il cuore battere forte. Poi mi dice: “Dell'argento e dell'oro io non ne ho; ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!”

All’inizio non capisco. Cosa vuole dire? Non ha soldi da darmi… ma qualcosa mi raggiunge dentro.

Sento la sua mano che mi prende e mi solleva.

E qualcosa di incredibile accade: i miei piedi e le mie caviglie diventano forti. Posso stare in piedi. Posso muovermi. Posso camminare. All’inizio cammino lentamente, quasi incredulo. Un passo… due passi… poi il cuore batte più forte… un balzo!

Posso correre, saltare, sento una gioia che non avevo mai conosciuto. Posso entrare nel tempio. Posso partecipare alla vita. Non più seduto davanti alla porta, non più escluso, non più solo.

Sento il vento sul viso, il sangue che scorre nelle gambe, l’energia che invade tutto il corpo. Ogni passo è un inno di lode.

Vedo le persone intorno a me: la loro sorpresa, lo stupore, il sorriso negli occhi. La mia gioia diventa contagiosa, segno che qualcosa di grande è avvenuto.

Questa esperienza mi ha insegnato tre cose:

1. Guardare qualcuno davvero cambia la vita Prima ero invisibile. Ora qualcuno mi vede, mi riconosce. Uno sguardo può aprire la strada alla speranza.

2. Il vero dono non è ciò che si dà con le mani, ma con il cuore e con Dio Pietro non aveva monete, ma aveva Cristo. E quel dono ha trasformato tutta la mia vita.

3. La gioia è contagiosa: Saltando e lodando Dio, vedo la meraviglia negli occhi della gente. La mia gioia diventa testimonianza, segno per gli altri.

Questa storia non è solo un mio ricordo che per voi ormai è duemila anni fa. È un messaggio per voi oggi.

Quante volte vi sentite “fuori”, bloccati, invisibili. Quante volte aspettate solo qualche “elemosina”, qualche piccola consolazione. Ma Dio vi offre di più: una vita nuova, una speranza che non si ferma alle ferite e alle mancanze.

Chi tra voi oggi si sente invisibile? Chi ha bisogno di una mano tesa? Chi attende che qualcuno lo guardi davvero?

Anche voi potete tendere la mano, anche voi potete essere Pietro o Giovanni. Non serve avere oro o argento. Basta guardare, ascoltare, accompagnare, condividere Cristo.

Oggi sono qui davanti a voi, non più zoppo, non più escluso, pieno di vita. E vi dico: aprite gli occhi sugli altri, tendete la mano, date quello che avete. E soprattutto, portate Cristo.

Perché chi incontra Cristo, anche nei giorni più difficili, può rialzarsi, camminare e saltare di gioia.

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Pensieri sul versetto del mese di settembre

C’è una parola che oggi ci accompagna più spesso di quanto vorremmo ammettere: paura. È una presenza silenziosa ma insistente.

A volte si fa sentire in modo diretto – davanti a una diagnosi, a una notizia preoccupante, a un imprevisto economico – altre volte serpeggia sotto la superficie, come un’ombra che ci segue. Paura del futuro, dell’instabilità, della solitudine, del fallimento. Viviamo in un mondo che, senza volerlo, alimenta continuamente la paura. E chi ci governa fa leva su questa paura per giustificare l’ingiustificabile, armarsi, spendere cifre astronomiche per fare guerra lasciando sul lastrico milioni di persone che di nuovo crea paura. Un circolo vizioso usato ad arte.

Quando abbiamo paura, cerchiamo rifugi. È naturale. Ma non tutti i rifugi sono sicuri. Alcuni sono solo illusioni: cose che promettono pace e sicurezza ma che, al momento del bisogno, crollano. Il salmista ci invita a rivolgerci a Dio stesso come rifugio. Non a ciò che possiamo costruire, comprare o controllare, ma a Lui. E aggiunge che Dio non è solo rifugio, ma anche forza. Non solo ci accoglie, ma ci sostiene. Non solo ci protegge, ma ci dà energia per andare avanti. Nel Nuovo Testamento vediamo questa verità incarnata in Gesù.

Quante volte dice: «Non temere», «Non abbiate paura», «Pace a voi». I discepoli, come noi, avevano mille motivi per avere paura: del mare in tempesta, dei nemici, del futuro, della croce, della persecuzione. Ma ogni volta che incontrano davvero Gesù, la paura si trasforma. Non perché le circostanze cambiano sempre, ma perché la presenza del Signore cambia loro.

Pensiamo a quando i discepoli sono chiusi nel cenacolo, per paura dei Giudei (Giovanni 20). Hanno visto il loro Maestro morire. Tutto sembra finito. Ma Gesù entra – proprio lì, nel mezzo della loro paura – e dice: «Pace a voi». E la paura comincia a perdere potere. O pensiamo a Paolo, che scrive dalla prigione, eppure parla di gioia, di forza, di speranza. La sua sicurezza non viene dalle mura esterne, ma dalla presenza interiore di Cristo.

La paura, quando guida le nostre decisioni, è sempre una cattiva consigliera. Spinge a chiuderci, a difenderci, a sospettare. Ci fa vedere gli altri come minacce, il futuro come un nemico, Dio come lontano. Ma la Parola ci mostra un’altra strada: quella della fiducia. Non cieca, non ingenua, ma radicata in un Dio che è rifugio reale e forza viva.

Questo non significa che non proveremo più paura. Anche i più forti nella fede l’hanno provata. Ma possiamo imparare a non lasciarci guidare da essa. Possiamo scegliere di fermarci, respirare, e ricordare: Dio è per noi. Non contro, non indifferente, ma per noi. E se Dio è per noi – come dirà anche Paolo ai Romani – chi sarà contro di noi?

C’è un grande sollievo nel sapere che, qualunque cosa accada, abbiamo un rifugio sicuro e una forza che non dipende da noi. In un mondo che cambia, Lui resta lo stesso. In un tempo segnato dalla paura, la Sua presenza può riportare la pace, una pace che caccia via la paura e toglie alla guerra e alle ingiustizie la ragion d’essere.

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Sermon August 31, Pordenone, on Job 23,1-17

Brothers and sisters,

today we hear the voice of Job. It is not a joyful voice. It is a broken voice… full of pain… and full of questions. Job feels that God is far away. He looks in every direction. He goes forward… backward… left and right. But God is hidden.

And Job cries: “If only I knew where to find Him. If only I could bring my case before Him.” This chapter is a prayer of lament. It is a cry for justice. And it speaks to us today. Because we too know moments… when God seems silent… when life feels unfair… when we do not understand.

Job does not pretend. He does not hide his feelings. He speaks honestly with God. “My complaint is bitter,” he says. “My hand is heavy because of my groaning.” Sometimes in church we think we must always be strong… always smile… always say, “Praise the Lord.”

But Job teaches us something different. Faith is not pretending. Faith is bringing everything to God— joy, but also anger; peace, but also tears. This honesty is holy. Because when we cry to God, we are still turning toward Him. When we bring our pain to God, we confess that He is still our God.

Job looks for God everywhere. But he cannot find Him. It is like shouting in the dark. We know this experience too. There are days when prayers seem empty. When heaven feels closed. When God is silent. This silence is hard to carry. But it is also part of faith. Faith is not always about answers. Faith is sometimes about waiting. About trusting in the silence. Believing that God is still present… even if hidden. Job never stops searching. That is already faith. To keep praying when God is silent… that is deep trust.

Then comes a surprising word. In verse 10 Job says: “He knows the way that I take. When He has tested me, I will come forth as gold.” What a strong statement! Job cannot see God, but he believes that God sees him. Job does not understand, but he trusts that God understands. The fire of suffering may be hard, but it can purify like gold. Gold becomes pure in the fire. The fire does not destroy the gold— it makes it shine. Job believes: “My life is in God’s hands. My steps are known to Him. And even if I walk through pain, He will bring me through.”

Job’s cry is not only his own. Today many voices cry out. Poor people cry out for justice. Families cry out for food and work. Refugees cry out for safety. And the earth itself cries out. The forests are burning. The seas are rising. The air is polluted. Animals lose their homes. Creation is suffering.

The Bible says in Romans 8 that creation groans… waiting for redemption.

The earth groans like Job. The earth says: “Where is God when humans destroy me? Where is justice for creation?” This year, the “Earth Overshoot Day” came already in July.

That means: in only seven months we humans used all the resources that the earth can renew in a whole year. From August to December we live on credit. We take from the future. We steal from our children. Can we imagine the earth standing like Job, crying before God, saying: “I am wounded. I am exhausted. Where is justice for me?”

Brothers and sisters, as people of faith we must not close our ears. Job teaches us to give space to lament. And if the earth laments, we must listen, we must repent, we must act.

Job ends with trembling words. He feels fear in God’s presence. He feels overwhelmed. But he does not give up. He keeps speaking. He keeps searching. That is our task too. To live with hope… even in silence. To listen to the cries of the world. To answer with justice and love. Our faith is not only about heaven. It is also about this earth. It is about standing with the poor. It is about protecting the weak. It is about caring for creation. When Job says, “I will come forth as gold,” he shows us the way. God will not abandon us. And if we hold on to His word, our lives can shine… not only for ourselves, but also for others, and for the earth that God created.

Dear brothers and sisters, let us walk in the steps of Job. Let us cry when we need to cry. Let us listen when creation cries. Let us live with hope when God is silent. And let us trust: when the fire is over, God will bring us out as gold.

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Riflessione biblica su Marco 12,28-34 registrata per la RAI FVG

Il dialogo fra Gesù e un teologo del suo tempo spicca per la sua sincerità. È un incontro diverso dal solito. In genere chi interroga Gesù vuole metterlo in difficoltà, vuole metterlo all’angolo. Oggi invece niente trappole, niente polemiche, solo uno scriba — un esperto della Legge — che si avvicina a Gesù e gli fa una domanda vera: «Qual è il comandamento più importante?»

Gesù risponde, citando le radici profonde della fede ebraica: «Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è l’unico Signore. Ama il Signore tuo Dio con tutto il cuore, l’anima, la mente e la forza. E ama il tuo prossimo come te stesso».

Ama, ama Dio e il tuo prossimo come te stesso. Tutto qui. Ma è un “tutto qui” che ci impegna radicalmente.

Ama. Certo, se ci pensiamo bene, questa parola — “amare, amore” — oggi rischia di sembrare debole, quasi fuori moda, in un tempo in cui vanno di moda la durezza, il sarcasmo, il giudizio facile. Basta guardarsi intorno: nei commenti sui social, nelle chiacchiere da bar, nei dibattiti politici, spesso la voce che si alza di più… è quella dell’odio. E sui social media esiste il termine tecnico “hate speech” discorso di odio, di love speech, discorso d’amore, non ha mai parlato nessuno.

Siamo veloci nel condannare, lenti nell’ascoltare. Più pronti a trovare colpevoli che a cercare ponti. E invece Gesù comincia proprio da lì: Ascolta.

L’amore vero nasce sempre dall’ascolto. Se non ascolto Dio, come posso sapere che Egli mi ama e come posso amarlo? Se non ascolto il mio prossimo, come posso dire di volergli bene?

Poi amare Dio con tutto se stessi — cuore, mente, forza — e amare il prossimo come noi stessi: non sono due comandamenti separati. Sono un’unica via. Perché non possiamo amare Dio che non vediamo, se ignoriamo o disprezziamo le persone che ci vivono accanto.

Lo scriba del nostro racconto lo capisce. E risponde con grande lucidità: «Hai detto bene, Maestro. Amare Dio e il prossimo vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». In pratica: l’amore vale più di ogni rito, più di ogni religiosità formale.

E Gesù gli dice una frase che ci fa riflettere: «Tu non sei lontano dal regno di Dio». Non lontano. Ma non ancora dentro.

Ecco il punto. Quello scriba ha capito, sì. Ma deve ancora fare quel passo decisivo: passare dalla testa al cuore, dalla teoria alla vita. Perché il Vangelo non è solo da comprendere. È da vivere. È una strada da percorrere.

Non nei riti, non nei discorsi, ma nell’amore concreto.

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Predicazione su Filippesi 3,7-14

Prima di lavorare solo con il computer, la mia scrivania era un campo di battaglia. Fogli dappertutto: appunti, promemoria, cose da fare. Alcuni li scrivevo io, altri comparivano senza sapere bene come. Se quei fogli avessero potuto parlare, credo che avrebbero fatto un gran chiasso. Uno avrebbe detto: “Sbrigati con me!”. Un altro: “Mi avevi promesso di sistemarmi ieri!” Un coro di richieste continue.

Forse anche a voi capita qualcosa di simile. Magari non con i fogli, ma con l’agenda sul telefono, con i post-it sul frigo, o con il pensiero fisso di non dimenticare nulla. La sostanza non cambia: siete sempre pieni di cose da fare, di aspettative da rispettare, di impegni da incastrare. Al lavoro, in famiglia, ma anche dentro di voi: sogni, ambizioni, sensi di colpa, il desiderio di non deludere nessuno. Il desiderio di essere “abbastanza”. E allora correte. Cercate di farcela. E quando ci riuscite — almeno per un po’ — vi sentite bene. Magari pensate: “Ecco, adesso sì che valiamo qualcosa.” Il problema? È che questa sensazione dura pochissimo. Perché appena spuntate una voce, ne arrivano due nuove. Sempre di corsa, sempre sotto pressione.

Il “prima” di Paolo

C’è stato un uomo nella storia che viveva esattamente così. Si chiamava Paolo, è lui l’autore del testo di oggi, una specie di autobiografia. Paolo, lo conosciamo bene. Era un tipo tosto, determinato, uno che faceva carriera. Un religioso rispettato, convinto di fare la cosa giusta, anche quando perseguitava chi la pensava diversamente. Si impegnava al massimo per essere irreprensibile davanti a Dio e davanti agli uomini. Ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni sua scelta erano pensati per dimostrare che era all’altezza.

Potremmo dire che, prima di incontrare Gesù, Paolo viveva in una continua “gara” per costruirsi una reputazione. E ci riusciva bene. Era fiero del suo curriculum spirituale e morale: ebreo di stirpe pura, circonciso l’ottavo giorno, fariseo zelante, osservante della legge, senza colpa visibile. Era sicuro di sé.

Ma questo “prima” era anche pesante. Perché quando vivete per tenere alta la vostra immagine, siete sempre sotto pressione. Dovete sempre mantenere lo standard. E ogni piccolo errore rischia di rovinare tutto.

La svolta – Trovare casa in Cristo

Poi, all’improvviso, tutto cambia. Paolo è sulla strada di Damasco, pronto a fare ancora quello che pensa sia giusto, quando una luce lo abbaglia. Cade a terra. Non vede più nulla. È un momento di crisi totale: perde i riferimenti, l’equilibrio, il controllo. E proprio lì, nel buio, comincia qualcosa di nuovo. Incontra Gesù, vivo, reale. E questo incontro gli cambia la vita.

Un commentario cerca di riassumere quanto Paolo scrive in un’unica frase, e lo trovo molto azzeccato: “Se io solo potessi guadagnare Cristo e trovare in lui la mia casa”. Significa: Paolo scopre che la sua vera casa non è nella reputazione, nei successi, nel rispetto degli altri, ma in una relazione viva con Gesù. La casa è il posto dove possiamo finalmente smettere di recitare, dove possiamo essere noi stessi, dove siamo accolt*. E Paolo capisce: in Cristo posso fermarmi, respirare, dire grazie, e sapere di essere amato così come sono.

Dal guadagno alla perdita

Per questo scrive ai Filippesi: “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno a causa di Cristo” (v. 7). Tutto ciò che prima gli dava sicurezza — la sua origine, la sua religiosità, il suo zelo — ora lo considera “spazzatura” rispetto al valore di conoscere Cristo. Non che quelle cose fossero cattive in sé, ma non potevano dargli ciò che solo Cristo poteva dare: una giustizia non costruita con le sue opere, ma ricevuta come dono da Dio.

Paolo non dice: “Ho trovato Cristo e ora mi siedo comodo”. Anzi, dice: “Voglio conoscerlo sempre di più”. Vuole sperimentare la potenza della sua risurrezione, condividere le sue sofferenze, conformarsi a lui. È come se dicesse: “Non mi basta sapere chi è Gesù, voglio vivere con lui e per lui”.

Il “dopo” di Paolo – Una corsa diversa

Nei vv. 12-14 Paolo è molto chiaro: “Non che io abbia già ottenuto tutto… ma corro verso la mèta”. Guarda qui, c'è una bella immagine. Paolo non è più quel tipo che vuole arrivare primo per vantarsene. Ora è libero, sa di essere già amato e accettato, ma corre per rispondere a quell'amore. Non lo fa per costruirsi un'identità, perché la sua identità è già sicura in Cristo.

E qui c’è una differenza enorme. Quando correte per dimostrare chi siete, vivete nell’ansia di non farcela. Quando correte perché amate e siete amati, correte con gioia e perseveranza, anche se la strada è dura.

Anche noi possiamo trovare casa

E allora la domanda è: dove stiamo cercando casa noi?

Molti di noi cercano casa in un lavoro stabile, in una famiglia unita, in una reputazione senza macchia, nella stima degli altri. Tutte cose belle, ma fragili. Basta un imprevisto, un fallimento, un cambiamento, e ci sentiamo persi.

Inoltre, e questo ci insegna la Gestalt, scuola di terapia, che più faccio le cose per essere accettato dagli altri, più perdo me, perché non sono più riconoscibile, non sono più il Jens che sono davvero ma quello che vuole apparire e le persone vedono solo un’immagine costruita, ma non me stesso.

Trovare casa in Cristo significa dire: “Il nostro valore non dipende da quello che facciamo o da come gli altri ci vedono. Dipende da un amore che non cambia.” È sapere che, anche se il lavoro finisce, anche se la salute vacilla, anche se commettiamo errori, restiamo accolti. In Cristo possiamo essere noi stessi, con i nostri sogni e i nostri fallimenti, e sapere che lui non ci respinge.

Vivere con libertà e scopo

Il bello è che questa libertà non ci rende passivi. Non è un “allora non facciamo più niente”. Anzi! Proprio perché Paolo ha trovato casa in Cristo, il suo impegno diventa ancora più focalizzato. Non deve più spendere energie per proteggere la propria immagine; può spendere la vita per ciò che conta davvero: servire, amare, portare il Vangelo, combattere per la giustizia, la pace, la verità.

Anche noi, se siamo liberi dal bisogno di dimostrare qualcosa, possiamo dedicarci di più a ciò che fa bene agli altri e onora Dio. Possiamo correre per la mèta che vale: vivere per Cristo e con Cristo.

Sfide grandi, ma possibili

Paolo corre verso obiettivi che sembrano impossibili: la piena conoscenza di Cristo, la comunione con lui fino alla morte, la risurrezione. Anche noi oggi abbiamo davanti obiettivi grandi: pace, giustizia, custodia del creato, amore per i più fragili. Da soli non ce la faremo mai. Ma se la nostra casa è in Cristo, non ci scoraggiamo. Corriamo con lui e per lui.

Conclusione – L’invito personale

Forse oggi vi sentite stanchi. Forse state correndo da troppo tempo per dimostrare di valere. Forse avete paura di fermarvi, perché non sapete cosa succederebbe se lo faceste. Vi invito a fermarvi davanti a Cristo. A dirgli semplicemente: “Eccomi. Prendimi così come sono.” Non dobbiamo convincerlo a volerci bene: ci ama già. Non dobbiamo essere perfetti: vuole cominciare da dove siamo ora.

Come Paolo, possiamo dire: “Siamo stati afferrati da Cristo Gesù”. E quando lasciamo che lui ci afferri, troviamo finalmente casa. Una casa che non crolla, una corsa che non stanca, una mèta che vale la vita.

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Meditazione biblica registrata per la RAI FVG

Prima di lavorare esclusivamente con il computer, sulla mia scrivania c’erano sempre un sacco di fogli sparsi. Appunti, promemoria, cose da fare. Alcuni li scrivevo io, altri me li ritrovavo lì senza sapere bene da dove fossero usciti. A volte pensavo: se quei fogli potessero parlare, farebbero un gran chiasso. Uno avrebbe detto “Sbrigati con me”, l’altro “Mi avevi promesso di sistemarmi ieri”… insomma, un coro di richieste continue che non si è mai spento.

Forse capita anche a te, o forse capita, come a me oggi, con un’agenda sul cellulare o forse appartenete al tipo con i post-it sul frigo. Ma alla fine la sostanza non cambia: siamo sempre pieni di cose da fare, di aspettative da rispettare, di impegni da incastrare. Al lavoro, in famiglia, ma anche dentro di noi: sogni, ambizioni, sensi di colpa, il desiderio di non deludere nessuno. Di essere “abbastanza”.

E allora corriamo. Cerchiamo di farcela. E quando ci riusciamo — almeno per un po’ — ci sentiamo bene. Magari pensiamo: “Ecco, adesso sì che valgo qualcosa.” Il problema? È che questa sensazione dura pochissimo. Perché appena spunti una voce, ne arrivano due nuove. Sempre di corsa, sempre sotto pressione.

C’è un uomo, nella storia, che viveva più o meno così. Si chiamava Paolo. Era un tipo tosto, uno che faceva carriera. Un religioso molto rispettato, convinto di fare la cosa giusta... anche quando perseguitava chi la pensava diversamente. Era sicuro di sé. E sembrava che tutto andasse secondo i suoi piani.

Poi, a un certo punto, qualcosa si spezza. Una luce lo abbaglia. Cade a terra. Non vede più niente. È un momento di crisi totale. Perde i riferimenti, l’equilibrio, il controllo. E proprio lì, nel buio, comincia qualcosa di nuovo. Incontra qualcuno che lo accoglie, lo ascolta, gli parla di Gesù. E qualcosa dentro di lui cambia.

Da quel momento Paolo non è più lo stesso. Non vive più per dimostrare qualcosa. Non cerca più di guadagnarsi il rispetto o di farsi approvare. Comincia a vivere da persona libera. Perché ha capito che il suo valore non dipendeva da quello che faceva, ma da un amore più grande. Un amore che lo aveva raggiunto anche con tutto il suo passato addosso.

E allora mi chiedo — e ti chiedo: quante volte ci sentiamo così? Stanchi, sotto pressione, con la sensazione di non essere mai “abbastanza”? E se ci fosse davvero un altro modo di vivere?

Paolo lo ha scoperto: non dobbiamo per forza bastare a noi stessi. Possiamo lasciarci amare. Possiamo lasciarci cambiare. Possiamo — anche solo con un pensiero, una preghiera semplice — dire: “Dio, eccomi. Prendimi così come sono.”

Non con paura. Ma con libertà. Non come chi deve convincere qualcuno a volergli bene, ma come chi si affida. Con tutto ciò che è. Con le sue ferite, i suoi sogni, i suoi fallimenti.

Perché forse, alla fine, è proprio questo il messaggio più grande: non sei il tuo curriculum. Non sei i tuoi errori. Sei qualcuno che può iniziare, oggi, a vivere davvero. A partire da un amore che non si conquista, ma si riceve.

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Predicazione su Isaia 2, 1-5

oggi il nostro testo ci porta ben 2700 anni indietro nella storia e ci rende testimoni di una visione profetica, forse una delle visioni più note e citate.

Isaia, il profeta, all’inizio del capitolo 2 ci racconta non qualcosa che è accaduto nel passato, ma qualcosa che ancora deve accadere. È un sogno? Una speranza? Una promessa? Un’utopia?

Sembra quasi un dipinto, un affresco su larga scala: un monte, dei popoli in cammino, parole che danno vita, armi che si trasformano. Un testo che ha attraversato i secoli e ancora oggi ci interroga, ci conforta, ci provoca.

1. Un popolo in cammino

Isaia dice: “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si ergerà sopra i colli; ad esso affluiranno tutte le genti.

Non è una processione di un solo popolo, non è un corteo nazionale o religioso. Sono tutti i popoli, le nazioni del mondo, che si mettono in cammino. Non c'è conquista, non c'è imposizione. Non c'è propaganda. C'è solo un desiderio, un bisogno: “Venite, saliamo al monte del Signore.”

Questo movimento verso Dio nasce dal basso. È come una sete collettiva, una fame condivisa. Non è solo il desiderio di spiritualità, ma la ricerca di un senso, di un orientamento, di una parola che parli davvero alla vita.

C'è un dettaglio interessante nel testo: i popoli si incoraggiano a vicenda. Si dicono l’un l’altro: “Venite!” Come quando tra amici ci si motiva a partecipare a qualcosa di importante: un incontro, un evento, una giornata speciale.

2. Una sete di ascolto

Isaia continua: “Egli ci insegnerà le sue vie e noi cammineremo nei suoi sentieri.”

Questa è forse la parte più sorprendente: i popoli non vogliono salire al monte per vedere qualcosa, per fare una foto, per avere un'esperienza spirituale, non vanno lì per turismo religioso, vanno lì, perché Vogliono ascoltare. Vogliono imparare.

Noi viviamo in un mondo pieno di parole, di opinioni, di rumore. Siamo inondati da messaggi, notifiche, pubblicità, consigli su cosa fare, come essere, cosa pensare. Ma Isaia ci mostra una scena diversa: un’umanità che fa silenzio per ascoltare Dio.

Non è semplice. Ascoltare richiede pazienza, attenzione, umiltà. È una forma di apertura, di disponibilità. E qui non si tratta di ascoltare per curiosità, ma per mettersi in cammino: “Noi cammineremo nei suoi sentieri.”

C’è un legame profondo tra ascolto e azione. Non basta sapere. Non basta sentire belle parole. Il desiderio è quello di vivere in modo nuovo, di camminare su strade diverse, più giuste, più vere, più umane.

Questo cammino non si fa da soli. Come sul sentiero di Emmaus, si cammina insieme. E talvolta, proprio nel cammino, scopriamo che Dio è accanto a noi, magari nascosto nelle parole di un compagno di viaggio, in un gesto semplice, in una parola che ci conforta.

3. Dalle armi agli aratri

Ed ecco che la visione di Isaia raggiunge il suo culmine: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci.”

Nel nostro tempo la pace sembra sempre di più un sogno, anzi un utopia. Non una pace fragile, fatta di armistizi temporanei o silenzi tesi, ma una pace vera, profonda, dove nessuno deve più avere paura dell’altro. Una pace in cui non si costruiscono più muri, ma ponti. Una pace dove non si imparano le tecniche di guerra, ma le vie della giustizia, della solidarietà, del dialogo.

Il profeta Isaia immaginava proprio questo: un mondo dove le spade sarebbero diventate aratri, le lance trasformate in falci, e nessuno avrebbe più imparato l’arte della guerra. Un mondo dove la formazione non è più alla guerra, ma alla cura della terra e delle relazioni.

Pensiamo a come sta andando il mondo:

La spesa militare globale ha superato i 2.4 trilioni di dollari all’anno. In Europa, alcuni Paesi stanno aumentando la spesa militare fino al 5 % del PIL. In Italia, per raggiungere questo obiettivo, si rischia di stanziare oltre 30 miliardi di euro per armamenti, mentre nello stesso tempo mancano fondi per scuole, ospedali, pensioni, edilizia popolare.

È paradossale: si trovano miliardi per armi, carri armati, caccia da guerra… ma per i bambini senza asilo, per i medici di base, per chi vive senza casa… spesso non c’è abbastanza. La verità è questa: ogni euro investito in armi è un euro sottratto alla vita. Ogni “sicurezza” costruita con la minaccia, si paga con meno salute, meno istruzione, meno dignità. È una questione etica, prima ancora che politica.

Perché la pace vera non è solo assenza di guerra. La pace si costruisce. Si impara. Ha un prezzo, sì, ma è un prezzo di giustizia, non di acciaio. L’etica della pace ci insegna che se depongo la spada, è per impugnare un aratro. Non per disinteresse, ma per costruire. Non per cedere, ma per seminare futuro.

In questo senso, la pace è una scelta attiva. È decidere di invertire la direzione

  • da spese militari a investimenti educativi,
  • da difesa dei privilegi a cura dei più fragili,
  • da logiche di potere a logiche di servizio.

Per questo, la Parola di Dio ci invita non solo a desiderare la pace, ma a educarci alla pace. Non si nasce pacifici: si diventa artigiani di pace. Si impara a smontare le armi.

Sì, la pace si impara. Come si impara a suonare uno strumento, a coltivare un campo, a far crescere un figlio. E la si impara insieme.

E allora, che possiamo essere artigiani di pace, nella vita, nelle parole, nei bilanci pubblici e privati, nelle scelte quotidiane, perché la pace non è utopia, ma la più grande responsabilità che abbiamo davanti a Dio e agli altri.

4. E noi, oggi?

Isaia conclude con un invito rivolto al suo popolo: “Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore!” È come se dicesse: “Abbiamo visto la visione. Ora tocca a noi. Non aspettiamo. Cominciamo a camminare.” E noi? Cosa ce ne facciamo di questa visione? Come ci interpella?

Forse ci sentiamo piccoli, impotenti, disillusi. Eppure la visione di Isaia comincia con un movimento collettivo, fatto di tanti piccoli passi. Un popolo in cammino. Uomini e donne che si incoraggiano a vicenda e vedono che si possono fare dei passi concreti per cambiare il mondo e convertire le menti e le azioni.

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Utopia o reponsabilità?

Registrazione per la RAI FVG

La pace sembra sempre di più un sogno, anzi un utopia. Non una pace fragile, fatta di armistizi temporanei o silenzi tesi, ma una pace vera, profonda, dove nessuno deve più avere paura dell’altro. Una pace in cui non si costruiscono più muri, ma ponti. Una pace dove non si imparano le tecniche di guerra, ma le vie della giustizia, della solidarietà, del dialogo.

Il profeta Isaia, con il nostro testo di oggi, immaginava proprio questo: un mondo dove le spade sarebbero diventate aratri, le lance trasformate in falci, e nessuno avrebbe più imparato l’arte della guerra. Un mondo dove la formazione non è più alla guerra, ma alla cura della terra e delle relazioni.

È un’immagine potente, poetica. Ma oggi… non è irreale o surreale? Io direi che è drammaticamente attuale.

Pensiamo a come sta andando il mondo:

La spesa militare globale ha superato i 2.4 trilioni di dollari all’anno. In Europa, alcuni Paesi stanno aumentando la spesa militare fino al 5 % del PIL. In Italia, per raggiungere questo obiettivo, si rischia di stanziare oltre 30 miliardi di euro per armamenti, mentre nello stesso tempo mancano fondi per scuole, ospedali, pensioni, edilizia popolare.

È paradossale: si trovano miliardi per armi, carri armati, caccia da guerra… ma per i bambini senza asilo, per i medici di base, per chi vive senza casa… spesso non c’è abbastanza.

La verità è questa: ogni euro investito in armi è un euro sottratto alla vita. Ogni “sicurezza” costruita con la minaccia, si paga con meno salute, meno istruzione, meno dignità. È una questione etica, prima ancora che politica.

Perché la pace vera non è solo assenza di guerra. La pace si costruisce. Si impara. Ha un prezzo, sì, ma è un prezzo di giustizia, non di acciaio.

L’etica della pace ci insegna che se depongo la spada, è per impugnare un aratro. Non per disinteresse, ma per costruire. Non per cedere, ma per seminare futuro.

In questo senso, la pace è una scelta attiva. È decidere di invertire la direzione:

  • da spese militari a investimenti educativi, * da difesa dei privilegi a cura dei più fragili, * da logiche di potere a logiche di servizio.

Per questo, la Parola di Dio ci invita non solo a desiderare la pace, ma a educarci alla pace. Non si nasce pacifici: si diventa artigiani di pace. Si impara a smontare le armi.

Sì, la pace si impara. Come si impara a suonare uno strumento, a coltivare un campo, a far crescere un figlio. E la si impara insieme.

E allora, che possiamo essere artigiani di pace, nella vita, nelle parole, nei bilanci pubblici e privati, nelle scelte quotidiane, perché la pace non è utopia, ma la più grande responsabilità che abbiamo davanti a Dio e agli altri.

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Predicazione estiva sul sole e su Dio sole di giustizia

Siamo in estate. Come ogni anno, in questa stagione si parla tantissimo del tempo. C’è chi dice che fa troppo caldo. Altri vanno in vacanza e trovano solo pioggia. Qualcuno si lamenta per il troppo sole, altri per il troppo poco sole. E c’è anche chi si dispera perché non riesce ad abbronzarsi.

Poi c’è chi ha paura per il buco dell’ozono, che fa passare i raggi più pericolosi del sole… e intanto, nelle nostre città, l’ozono a volte è fin troppo, e ci fa mancare il respiro.

Insomma, in estate, tutti parlano del tempo. E, inevitabilmente, tutti parlano del sole.

Il sole è vita. Senza di lui non ci sarebbe nulla: niente piante, niente calore, niente ossigeno, niente vita. Per questo, fin dall’antichità, il sole è diventato un simbolo forte di Dio, del suo splendore, della sua forza, della sua luce. Le antiche civiltà lo avevano capito. Gli Egizi lo adoravano come Aton. I Greci lo chiamavano Helios. Gli Aztechi e gli Inca lo onoravano come una divinità. I Romani gli dedicavano feste. E la data del nostro Natale, il 25 dicembre, non cade a caso: era la festa del solstizio d’inverno, quando il sole ricomincia piano piano a vincere il buio. Anche i giapponesi lo hanno messo sulla loro bandiera: un sole rosso che sorge.

Il sole ha lasciato tracce anche nella Bibbia. E anche nella nostra fede. Per me, il sole è un’immagine concreta della grazia di Dio, che ci arriva con una generosità… sovrabbondante.

Il sole ci ricorda anche quanto siamo piccoli. Pensiamo un attimo a cosa abbiamo sopra le nostre teste:

Il sole esiste da 4 miliardi e mezzo di anni. E non è nemmeno a fine corsa: è a metà della sua vita. Ha una temperatura che va da migliaia a milioni di gradi. È una stella gigantesca: più di 100 volte il diametro della Terra. La sua luce impiega circa 8 minuti a raggiungerci.

Dentro il sole, ogni secondo, avviene un’enorme reazione: quattro atomi di idrogeno si fondono in uno di elio, e da lì nasce un’energia immensa. Pensate: in un solo secondo, il sole emette tanta energia quanta ne produrremmo con 150 milioni di centrali elettriche. Ogni secondo!

Ma sapete quanto di tutta quell’energia ci arriva davvero? Appena mezzo milionesimo. Il resto si disperde nel cosmo. Eppure, è più che sufficiente per dare vita a tutto.

Questa si chiama sovrabbondanza. Il sole dà senza misura, senza trattenere nulla. Proprio come fa Dio nella sua grazia. Dio non ci dona il minimo indispensabile. No. Ci riempie, ci circonda, ci nutre con la sua bontà e bellezza.

Quando Gesù, nel sermone sul monte, parla dell’amore verso i nemici, dice: “Dio fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e manda la pioggia sui giusti e sugli ingiusti.”

È la grazia sovrabbondante. Un dono che arriva a tutti anche a chi non se lo aspetta.

Dio ci dona la vita, il creato, la forza delle mani, il respiro e i pensieri. E allora, come facciamo col sole d’estate, esponiamoci alla sua grazia. Stiamo lì, davanti a lui. Lasciamo che il suo amore ci scaldi, come i raggi sulla pelle.

Senza il sole non c’è vita. Letteralmente. La nostra pelle, grazie al sole, produce serotonina, quella sostanza che ci aiuta a non cadere nella depressione. I raggi UVB ci permettono di produrre la vitamina D. E il nostro corpo riesce ad assorbire meglio l’ossigeno.

È come guardare il volto buono di Dio, come sentire la sua grazia sulla pelle. Il sole scioglie la tristezza. Scioglie i nostri dubbi sul nostro valore, sulle nostre colpe, sulle occasioni perse.

Come il sole, anche Dio si dona. Ma non si consuma. Anzi: si ritrova nel dono. In Cristo, Dio si è dato, completamente. E non si è svuotato. Si è rivelato.

Per tanto tempo abbiamo pensato che la Terra fosse il centro dell’universo. Poi abbiamo scoperto che non lo è. Nemmeno il sole è il centro. È solo una stella, tra miliardi. Una stella grande per noi… ma piccola nel cosmo. E questo ci fa capire quanto siamo piccoli anche noi.

Sì, possiamo inventare mille cose, ma senza il sole non possiamo fare nulla. Neanche il petrolio è altro che energia solare conservata da millenni. E quando il sole ha i suoi cambiamenti, ce ne accorgiamo. Ogni undici anni circa, si formano delle macchie solari. Da lì partono vere e proprie esplosioni di energia, che influenzano il clima, i satelliti, le comunicazioni… persino il nostro umore.

Non stupisce che i popoli antichi, davanti a tanta potenza, abbiano finito per divinizzare il sole. Quando l’uomo sente di appartenere a qualcosa di più grande, di misterioso, di vitale… cerca un dio.

Ma noi, che abbiamo conosciuto il Dio della Bibbia, sappiamo che è Dio ad aver creato il sole. Il sole ci parla della grandezza di Dio, ma non è Dio. È un segno, un riflesso.

E questo Dio ha voluto donarci tutto: la luce, la vita, e anche suo Figlio, perché potessimo conoscere la sua luce più da vicino. Eppure, il sole ha anche un lato oscuro.

Nelle giornate torride, quando la temperatura supera i 40 gradi, soprattutto chi ha problemi di cuore ne soffre. Troppo sole secca, brucia, crea deserti. Conosciamo anche la questione del buco dell’ozono. Solo quello strato, sottile ma prezioso, ci protegge dalla parte distruttiva del sole.

E poi c’è una cosa che tutti sappiamo: non si può guardare il sole a occhio nudo. È troppo forte. Ci brucerebbe gli occhi.

Anche Dio ha, per così dire, un lato “oscuro. Non nel senso che sia cattivo, ma nel senso che è troppo grande per noi. La Bibbia lo chiama: santità. È un fuoco che consuma. Nessuno può avvicinarsi a Dio e restare com’era. Nella Bibbia, nel tempio di Gerusalemme, solo il sommo sacerdote poteva entrare nel luogo più sacro, e solo una volta all’anno.

Noi esseri umani, con i nostri limiti, non possiamo avvicinarci a Dio da soli. Ma è Dio che ha scelto di avvicinarsi a noi.

E lo ha fatto in Gesù di Nazaret.

Lui è la luce che brilla nelle tenebre. Ma non ci brucia. Non ci acceca. Non ci consuma. La sua luce illumina, riscalda, ama. È luce per tutti. È luce che vuole essere riflessa.

Gesù ci dice: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e rendano gloria a Dio.”

Questo è il nostro compito: riflettere la luce del sole, portarla a chi vive nel freddo, nel buio, nel dubbio. Portarla a chi pensa che Dio non esista più. Come disse il re Salomone: “Il Signore ha dichiarato che abiterà nell’oscurità.” Anche noi, a volte, ci sentiamo così. Dentro a giornate buie. In momenti in cui Dio sembra lontano, silenzioso, irraggiungibile. E allora nasce la paura. Ci manca la fiducia.

Da bambino, quando pioveva, dicevo: “Oggi non c’è il sole”. Ma il sole c’è sempre. Anche dietro le nuvole. Anche quando non lo vediamo. La sua luce passa comunque, illumina comunque.

E così è Dio: c’è sempre, anche quando non lo sentiamo. Allora portiamo questa luce. Portiamola a chi vive nel buio. A chi ha perso speranza. A chi ha smesso di credere.

Il sole è un’immagine bellissima per Dio. Ci mostra la sua grandezza, la sua luce, il suo calore. E ci ricorda che anche noi, se ci esponiamo alla sua grazia, possiamo diventare portatori della sua luce.

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Avere o essere

Predicazione su Giovanni 6,30-35

Chi di noi non ha mai provato fame? Non parlo solo di quella fisica — dello stomaco che brontola. Parlo di una fame più profonda: quella di sentirsi al sicuro, di avere un senso, di sapere che la nostra vita vale. Una fame di amore, di pace, di giustizia, di relazione vera.

Viviamo in un mondo in cui ci viene detto, fin da piccoli, che questa fame si placa possedendo: cose, titoli, sicurezze, garanzie. Ma poi, anche quando abbiamo tanto… ci accorgiamo che qualcosa manca ancora.

Il brano che abbiamo letto oggi ci parla proprio di questo:

Parla di una folla. Gente che ha camminato, alla ricerca, che ha fame. Ma non solo fame di cibo: fame di senso, di speranza, di sicurezza. Quella folla ha appena visto Gesù fare un miracolo straordinario: ha moltiplicato il pane e ha sfamato cinquemila persone. E allora lo cercano di nuovo. Ma perché? Gesù lo dice chiaramente qualche versetto prima:

«Mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato del pane e siete stati saziati» (Gv 6,26).

La gente vuole ancora quel pane. Vuole sicurezza, vuole che il miracolo si ripeta. E allora fa una domanda:

«Quale segno fai, dunque, affinché ti crediamo? I nostri padri mangiarono la manna nel deserto…»

Questa richiesta è interessante. La folla paragona Gesù a Mosè. Gli dice: “Va bene, ci hai dato pane una volta. Ma Mosè ha dato la manna ogni giorno per quarant’anni. Tu che fai di più?”

Ma Gesù li corregge. Dice che non è stato Mosè a dare il pane dal cielo, ma Dio stesso. E aggiunge una cosa fondamentale:

«Il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo… Io sono il pane della vita».

1. Che pane cerchiamo?

Questa è la prima domanda che il testo ci pone: che pane cerchiamo?

Viviamo in un mondo dove siamo spinti continuamente ad avere: avere più cose, più soldi, più comfort, più tempo, più successo. Abbiamo perfino fatto del pane – cioè del necessario – un oggetto di ansia. Abbiamo paura di non avere abbastanza. Così accumuliamo, risparmiamo, ci proteggiamo. E pensiamo: “Quando avrò tutto il necessario, allora sarò tranquillo. Allora sarò felice”.

Ma Gesù ci invita a un’altra logica: quella dell’essere. Non del possesso, ma della relazione. Non del controllo, ma della fiducia.

Erich Fromm, un sociologo e psicoanalista del secolo scorso, lo spiegava con un’immagine semplice: un bicchiere blu è blu perché lascia passare il blu, non perché lo trattiene. Così anche noi siamo davvero noi stessi non per ciò che tratteniamo, ma per ciò che doniamo, che siamo, che condividiamo.

2. Avere o essere?

Fromm parla di due modi di vivere: la modalità dell’avere e quella dell’essere. La modalità dell’avere è quella del possesso: “Questa casa è mia. Questo tempo è mio. Questi soldi sono miei. E li difendo”. Ma in realtà, come dice Fromm, quello che possediamo spesso finisce per possedere noi. Viviamo nella paura di perdere ciò che abbiamo.

La modalità dell’essere, invece, è un altro stile di vita. È fatto di fiducia, di apertura, di relazione. È vivere sapendo che la vita è un dono da ricevere e da donare, non qualcosa da controllare.

Quando la folla chiede a Gesù:

«Dacci sempre di questo pane»,

non ha ancora capito bene. Pensa a un pane che si può avere, conservare, magari mettere da parte. Ma Gesù risponde con un invito radicale:

«Io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete».

Non è un pane da possedere, è un pane da vivere. È una relazione. È fede. È fiducia. È essere in Cristo.

3. Un Dio che si dona

Gesù non ci offre una cosa, ci offre sé stesso. Dice: “Io sono il pane”. Si fa cibo, si fa nutrimento, si fa dono.

Come la manna nel deserto, che non poteva essere conservata per il giorno dopo, anche la fede è un pane che si riceve ogni giorno, nella fiducia. Non si mette da parte, non si gestisce. Si vive.

Il vero miracolo non è la moltiplicazione dei pani. Il vero miracolo è che Dio si dona. Si dona ogni giorno. A chi lo cerca. A chi si fida. A chi, anche nella sua fame, non cerca più cose… ma cerca Dio stesso.

4. E noi, cosa scegliamo?

Il mondo oggi ci insegna a vivere nella logica del “sempre di più”: più risorse, più denaro, più sicurezza, più controllo. Ma tutto questo non sazia davvero la fame profonda del cuore, anzi, la logica del “sempre di più” alla fine ci distrugge, distrugge il Creato e distrugge le relazioni. Non dona vita, senso, amore. La vita, il senso, l’amore non crescono sull’arido suolo dell’avere, del possedere.

Gesù ci dice: “Fermati. Vieni a me. Fidati. Io sono il pane della vita”. Non è una promessa di comodità. È una promessa di vita piena, di libertà dal bisogno di avere, per imparare a essere.

Concludo

La ricerca di un pane terreno che sazi a lungo può essere interpretata, secondo Erich Fromm, come un modo di esistere basato sull'avere: le persone sperano di diventare felici quando non devono più preoccuparsi del cibo quotidiano. Il racconto della manna contiene già una chiara critica di questo desiderio di possesso: Mosè ordina alle persone nel deserto di raccogliere solo la quantità di pane necessaria alla famiglia per un giorno (Esodo 16,16) – chi pensa di dover fare scorte, la mattina dopo si ritrova davanti a un mucchio puzzolente pieno di vermi (Esodo 16,20). Già nel racconto della manna, quindi, il modo di esistere dell'avere si contrappone al modo di esistere dell'essere, caratterizzato dal fatto che le persone si accontentano di ciò di cui hanno bisogno per un giorno e, per quanto riguarda il futuro, si affidano a Dio.

Domande finali:

Di quanta sicurezza materiale abbiamo bisogno in un mondo attualmente molto incerto? Cosa è sufficiente per vivere e cosa serve per una vita “buona” o “riuscita”? Dove cerchiamo oggi di soddisfare la nostra profonda fame di vita con il pane materiale (e altri beni materiali) che non possono placare questa fame? Chi o cosa può diventare oggi per noi il vero pane della vita? Quanta fede o fiducia in Dio è necessaria per questo?

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