Jens

Pastore delle chiese metodiste di Udine e di Gorizia

Messaggio di allarme

Pubblichiamo qui il link al messaggio di allarme di cui è il primo firmatario Adolfo Perez Esquivel, Premio Nobel per la pace 1980

Messaggio di allarme

Jens Hansen Mastodon

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Testo: Luca 21:25-33

Versione italiana

Versione in Twi

Che cosa hanno in comune l’Avvento e il nostro testo di predicazione? Entrambi parlano di Cristo che viene. Cristo è in cammino. Cristo è sulla strada verso di noi.

Questo consola chi si aspetta che possano arrivare cose peggiori. Dà forza a chi si è scoraggiato per tutte le cattive notizie del nostro tempo. Ridona nuova fiducia a chi ha quasi disimparato a vivere con speranza. Lo sguardo rivolto a Colui che viene è uno sguardo verso l’alto. Uno sguardo verso il cielo.

Uno sguardo che va oltre ciò che è terreno, opprimente, spaventoso. Uno sguardo su una realtà nuova, che non possiamo dedurre dalla nostra esperienza.

Ma è proprio questo che l’Avvento vuole dirci: noi aspettiamo Colui che supera ogni nostra esperienza. Colui che ci dà forza per vincere le nostre paure.

Colui che imprime in noi l’immagine di un buon futuro, con la quale possiamo già da ora plasmare e trasformare il nostro presente.

L’immagine del Regno di Dio, nel quale abitano pace e giustizia, può incoraggiarci a trattarci gli uni gli altri con amore e attenzione.

In mezzo a un mondo che cambia continuamente ed è sempre esposto al pericolo.

Dopo la crisi finanziaria mondiale del 2008, la crisi del Covid e poi la crisi causata dalle sanzioni contro la Russia, da ogni parte si agita ora lo spettro della recessione, di una nuova crisi economica. I segni dei tempi, in campo economico, annunciano tempesta. E i nostri governanti ci portano direttamente in una guerra che nessuno vuole. Poiché ovunque si parla di “tempi difficili”, i consumatori sono insicuri. Bisogna forse risparmiare per i “tempi difficili”, per avere qualcosa da parte quando il proprio posto di lavoro sarà in pericolo? Oppure proprio ora, contro tutti i profeti di sventura, si dovrebbe comprare per sostenere l’economia? Nei circoli politici si discute di programmi di rilancio dell’economia. E qui si pone la stessa domanda: lo Stato deve ora stringere la cinghia, oppure deve fare spese supplementari per sostenere l’economia “malata”? Eppure si sarebbe dovuto imparare dal passato che questi programmi spesso si esauriscono senza grandi effetti, più che portare un reale vantaggio. Possono difficilmente influenzare in modo duraturo la dinamica interna di un’economia mondiale debole e profondamente intrecciata. Appaiono tutt’al più come misure cosmetiche, che servono a calmare il popolo. Come vediamo, il prossimo futuro viene attualmente dipinto con colori molto cupi. Questo alimenta paure nella popolazione. Genera incertezza e crea un clima di malinconia e pessimismo. Da chi ci si può aspettare aiuto? Chi sa che cosa può far migliorare di nuovo la situazione? Chi conosce la ricetta giusta per rimettere in moto l’economia? Un ulteriore fattore di insicurezza è il continuo riscaldamento del clima, che porterà a cambiamenti su scala mondiale. In molti luoghi i ghiacciai si sciolgono. Di conseguenza il livello del mare salirà. Saranno necessari trasferimenti di popolazione quando le regioni costiere finiranno sott’acqua. Conosciamo i terremoti e le eruzioni vulcaniche, che si verificano sempre di nuovo e hanno conseguenze terribili. E pensiamo alle sempre più forti piogge con conseguenze devastanti e spesso mortali. Per i prossimi anni e decenni si prevede anche una diminuzione delle riserve di petrolio e dell’acqua dolce. Quali conflitti e quali guerre ne deriveranno, non è ancora possibile prevedere. Ma tutto questo non è nulla di nuovo sotto il sole.

Già al tempo in cui Luca scriveva il suo Vangelo, c’erano paura e smarrimento tra le persone, di fronte ai conflitti armati e alle catastrofi che avvenivano nei dintorni dei suoi lettori. Ci saranno state sicuramente voci che dicevano: “Dove andremo a finire?” oppure “Così non si può andare avanti!” o “Questo è l’inizio della fine!”. Anche allora i pessimisti saranno riusciti a diffondere le loro paure e a contagiare gli altri. Quando Luca mette sulle labbra di Gesù: “Questa generazione non passerà prima che tutto questo avvenga”, questo, preso alla lettera, è un’esagerazione enorme. Forse Luca voleva semplicemente rendere chiaro che tutte le paure che nascono dalle esperienze non devono necessariamente distruggere nessuno. Che tutte queste paure perdono la loro forza e il loro potere là dove si impara a guardare oltre di esse. Dove si alza lo sguardo e si vede Colui che, durante la sua vita terrena, ha imposto un limite al vento e alle onde. Colui le cui parole allora sprigionano la loro forza. Quando Luca fa parlare Gesù del “fragore del mare e dei flutti”, è una forte immagine della paura che coglie le persone davanti ad avvenimenti opprimenti. La paura può sommergere l’anima come le onde del mare e togliere il respiro. La paura paralizza e rende incapaci di agire davanti alle sfide che i problemi del nostro tempo rappresentano. A questo Gesù contrappone l’immagine del fico: “E disse loro una parabola: guardate il fico e tutti gli alberi; quando già germogliano e voi lo vedete, da voi stessi capite che ormai l’estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il Regno di Dio è vicino.” Gesù distoglie il nostro sguardo dagli avvenimenti che percepiamo come opprimenti e gravosi. Ma anche dalle conseguenze che giudichiamo terribili. “No, non è la fine. Non abbiate paura: in tutto questo si manifesta l’inizio di qualcosa di nuovo. Oltre l’orizzonte la strada continua – meglio di quanto possiate immaginare in qualunque modo.” Nella crisi si manifesta ciò che vince la paura. Nella crisi germoglia il nuovo. Quanto più i segni dei tempi sono inquietanti, tanto più il Regno di Dio è vicino. Quanto più grandi sono le paure, tanto più forte diventa la speranza. Quanto più regna la mancanza di riguardo, tanto più pieni saranno pace e giustizia. Ciò che viene non è la fine, ma qualcosa di completamente nuovo e straordinario. Per questo vale la pena impegnarsi già qui e ora. Guardiamo, in pieno inverno, all’estate che verrà. Guardiamo agli alberi che mettono le gemme, alla speranza in fiore, alla fiducia profumata di buono e ai frutti maturi che l’estate porta con sé.

Difficilmente vedremo Gesù arrivare su una nuvola. Ma nelle sue parole – che non passeranno – egli viene verso di noi. Parole che ci consolano nei tempi difficili. Parole che ci rialzano e ci danno forza in mezzo alle tempeste che ci circondano. Parole che ci donano speranza e futuro, nonostante tutte le incertezze e i pericoli di questi giorni. Poiché sappiamo che l’estate verrà, sentiamo già dentro di noi il suo calore. Il cielo si apre in noi. Fioriamo. Questo si vede là dove viviamo in pace gli uni con gli altri. Dove ci mostriamo rispetto e considerazione. Dove amiamo e perdoniamo. In verità: qui Cristo è in cammino verso di noi. Così discreto e umile come nella notte santa – come un bambino appena nato, davanti al quale le nostre paure svaniscono e la nostra capacità di amare fiorisce. Amen

Jens Hansen Mastodon

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Romans 13,8-12


Do we have Advent traditions?

I do not know how the time of Advent is for you.
Do you have traditions to celebrate Advent?

When I was a child, we had many traditions.
On Sunday our family came together in the living room. On the table there was an Advent wreath. We lit a candle, we sang, we read, and we sat together in the candlelight. Advent was a time of waiting, but also a time of activity. I can still remember the smell of Christmas cookies that my mother baked together with us.

Advent … it comes again every year.
It is part of the rhythm of our life, the rhythm of the church year.

Also outside, in the streets, we can see something like a “new Advent”, but in a very different way. There, people do not really wait. The shops are decorated for Christmas, the streets are full of lights for Christmas. And this happens every year earlier than the year before.

This year I even saw one shop full of Christmas lights and decorations already at the end of September or the beginning of October. And it was not one of those special shops that sell Christmas decorations all year long, like we sometimes see in the north of Europe. It was a normal shop. For me this was a kind of record.

So yes, Advent comes every year.
But: what kind of Advent is it?


Advent: learning to wait

Advent means: to wait.
To wait for the future.
To wait for the One who is coming.

But today it seems that many people are not really waiting for Christ. It looks like they are waiting for something else: for Black Friday.

Black Friday – the Friday to buy many things at a good price.
The black Friday of consumerism.

This “black Friday” stands in strong contrast with another kind of Friday that many young people talk about: the FFF, “Fridays for Future”. These are the Fridays when students go on strike to think about the future of our planet.

But the “black Friday” of consumerism does not open the future. It closes it.
It is not helping the planet. It is not protecting creation.

We also know other “Black Fridays” in our history: the Black Fridays of the stock markets. We know that for the stock markets it is sometimes enough that a small rumour starts to spread, and suddenly shares lose their value, or they become much more expensive. Sometimes the quick fall of the markets has very serious consequences for many people.

The first “Black Friday” of this kind was in England in 1866, when a bank went bankrupt. In 1869 there was a Black Friday in the USA. In 1873 in Vienna. And in 1929 the whole world entered a time of crisis.

Paul, in his letters, speaks about a very different future.
Not a future that leads us into crisis and climate catastrophe – the “black Friday” of consumption.
Not a future that leads us to the edge of world crises – the “black Friday” of the stock markets.

For Paul, the “Black Friday” that really matters is in the past. The word “Black Friday” first comes from Good Friday, the day when Jesus of Nazareth died on the cross.


The “First Black Friday”: Good Friday

Compared to the other “Black Fridays” of human history, this “Black Friday” – Good Friday – opens a new future. It brings blessing, not curse.

Why?

Because some people, including Paul, see in that terrible death on the cross an act of love. They see it like this because the message of this man, who died on the cross, was a message that went against the stream, against the religious leaders of his time. It was a message made real in actions and in words.

The central theme: the unconditional love of God for all his creatures.

This message questioned the powers of that time. And so Jesus “had to” die. But death did not win. From the “Black Friday” of Jesus a new life began.

The empty tomb is a sign of a great change in the story of the world: God is not pushed away, God is not eliminated on the cross. The travelling teacher continues to change the destiny of the world and to open for us the horizon of divine love. As sisters and brothers we are all sons and daughters of our Father in heaven, and we walk in the “magnetic field” of his love.

This is what stands behind Paul and his letters.
Even if Paul never met Jesus of Nazareth in person, he draws from the love that Jesus preached and lived. Jesus opens new horizons in the life of Paul. Paul changes from a persecutor of the young church into a witness of a love that nobody and nothing can take away from us.

The love of God, also in Paul, changed an enemy into a brother.


What are we waiting for? Or: Who are we waiting for?

Every year we remember this story. And we remember that this story is not finished yet.

But we must change the question.
The question “What are we waiting for?” is not enough.
The better question is: “Who are we waiting for?”

Advent is not only about waiting for a feast, or for some free days, or for good food and presents. Advent is waiting for a person: for Christ.

Paul writes that we should not hold back the love that God showed us in Christ, who will come again. For Paul, love is the only thing we still owe – the only “debt” that remains.

He says: “Do not owe anything to anyone, except to love one another.”
All other debts have been paid. Once and for all.

This is why love is the fulfilment of the law.
When we love, we live what God desires.

This sounds very beautiful, but it is also very concrete.

To love means:

  • to see the other person as a child of God,
  • to respect their dignity,
  • to care for their needs,
  • to protect their life and their future,
  • to forgive when they hurt us,
  • and to ask forgiveness when we have hurt them.

The world is suffering.
Paul says: the whole creation “groans”, like a woman giving birth.
The world is waiting.

Advent wants to remind us that the future of God has already begun in Jesus Christ.
The light has already come into the darkness.
The new life has already started.
We are not at the end of the story. We are somewhere in the middle.


A different witness in a “Black Friday” world

So what does this mean for us today, in our world of Black Fridays and full shops?

Maybe this:
Let us live in such a way that the world can expect something from us.
Let us live so that people can really wait for something good when they meet Christians.

Let us not be only witnesses of the “Black Friday of consumption”, which closes the future.
Let us be witnesses of the only “Black Friday” that has opened the future: the Good Friday of Jesus Christ.

When we love each other, when we help, when we share, when we protect creation, when we stand with the weak, when we forgive – then we show that the love of God is real. Then we show that the future of God has already started.

Every small act of love is like lighting a candle in the darkness.
And Advent is exactly this: lighting candles, not only on the wreath, but in our daily life. In a dark world, even a small light is visible from far away.


Conclusion

So, in this time of Advent, I invite you:

  • to remember your own stories and traditions of Advent,
  • to look at the many “Black Fridays” of our time with clear eyes,
  • and to fix your eyes on the first and true “Black Friday”, on Good Friday, where the love of God opened a new future.

Let us ask ourselves, not only “What am I waiting for?” but “Who am I waiting for?”
And let us not keep for ourselves the love that has been shown to us in Christ, who will come again.

Because, as Paul says, love is the only thing that we still owe to God and to the world.

May God help us to live this love,
so that the world can see a light,
and so that our Advent becomes a real time of hope.

Amen.


Intercessory Prayer for Advent

Holy God,
we thank you for this time of worship.
We thank you for the season of Advent,
for this time of waiting and hope.

You are the God who comes to us.
You are the God who opened a new future for us
on the cross of Jesus,
on that first “Black Friday” we call Good Friday.
Thank you for your love that never ends.

Lord, in your mercy,
hear our prayer.


For the Church

God of love,
we pray for your Church all over the world.
Help your people to wait for you,
not only to wait for Christmas as a feast,
but to wait for Christ as a person.

Make your Church a light in the darkness.
Where we are afraid, give us courage.
Where we are divided, give us unity.
Where we are tired, give us new strength.

Teach us to love one another,
because love is the only debt that remains.

Lord, in your mercy,
hear our prayer.


For the World and Its “Black Fridays”

God of all nations,
we bring before you our world
with all its fears and troubles.

We think of the “Black Friday” of consumerism.
So many people feel pushed to buy more and more.
So many feel empty and alone,
even if they have many things.

Help us to live in a simple way.
Help us not to close the future with our consumption.
Help us to remember people who cannot buy,
who struggle to pay their rent,
who do not know how to feed their families.

We think also of the “Black Fridays” of the financial markets.
We remember all those who have lost work,
house, savings and security
because of economic crises.

Be close to all who suffer in this way.
Give wisdom to those who have power in politics and in the economy.
Turn their hearts from greed to justice,
from profit to service.

Lord, in your mercy,
hear our prayer.


For Creation and the Future of the Planet

Creator God,
you saw that your creation was good.
And yet today the earth is crying.

The climate is changing,
the oceans are warming,
animals and plants are disappearing.
We hear the “groaning” of creation.

Forgive us
for the ways we have hurt your world
by our way of life.

We pray for all who work for the protection of creation:
for scientists, activists, politicians,
for young people who go out on “Fridays for Future”,
and for all who try to change their daily habits.

Give us also the courage to change.
Help us to use less, to waste less,
to live as guests on this earth,
and not as owners.

Lord, in your mercy,
hear our prayer.


For the Suffering, the Lonely, the Afraid

Merciful God,
you know every person by name.
You see every tear that falls.

We pray for all who are suffering today:
for the sick,
for those who wait for a diagnosis,
for those who are in hospital or at home in pain.

We pray for people who feel alone,
for the elderly who see fewer friends every year,
for migrants far from their home,
for those who do not speak the local language well
and feel isolated.

We pray for those who are afraid of the future,
who do not know if they will have work,
if they can stay in this country,
if their children will be safe.

Be close to each one of them.
Send people who can help and listen.
Use us also as your hands and feet,
so that our love is not only words,
but also concrete actions.

Lord, in your mercy,
hear our prayer.


For Ourselves

God of grace,
you changed Paul from an enemy into a brother.
You can also change our hearts.

Where there is bitterness in us,
give us the desire to forgive.
Where there is hate in us,
plant your love.
Where there is indifference in us,
open our eyes for the pain of others.

In this Advent time,
teach us to ask not only,
“What am I waiting for?”
but “Who am I waiting for?”

Help us to open the door of our hearts to Christ,
and to see his face in the people around us:
in the poor,
in the stranger,
in the one who is difficult to love.

Lord, in your mercy,
hear our prayer.


Into your hands, good Father,
we place all the prayers we have spoken,
and also the silent prayers in our hearts.

We trust in your love
shown to us in Jesus Christ,
the One who has opened the future for us.

We pray in his holy name,
Jesus Christ our Lord.

Amen.

Blessing

24 The Lord bless you and keep you; 25 the Lord make his face to shine upon you and be gracious to you; 26 the Lord lift up his countenance upon you and give you peace.

Jens Hansen Mastodon

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Predicazione su Romani 13, 8-12

8 Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. 9 Infatti il «non commettere adulterio», «non uccidere», «non rubare», «non concupire» e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso». 10 L'amore non fa nessun male al prossimo; l'amore quindi è l'adempimento della legge. 11 E questo dobbiamo fare, consci del momento cruciale: è ora ormai che vi svegliate dal sonno, perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. 12 La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.

Avvento … ogni anno si ripete. Fa parte del ritmo della nostra vita, il ritmo dell’anno liturgico. Anche fuori, per le strade lo vediamo, con la differenza che lì non si aspetta, i negozi si addobbano per Natale, le strade vengono illuminate per il Natale. E ciò ogni anno prima dell’anno precedente. Infatti, è un record che quest’anno ho visto un negozio illuminato e addobbato a Natale a fine settembre/inizio ottobre, e non è uno di questi tipici negozi che si trovano nel nord dell’Europa che per tutto l’anno vendono addobbi natalizi.

Avvento è saper aspettare, aspettare il futuro, aspettare colui che viene.

Oggi sembra invece che la gente non aspetti altro che il black friday. Il venerdì nero dove fare degli acquisti a buon prezzo, il venerdì nero del consumismo, il venerdì nero in forte contrasto con i FFF, fridays for future, perché il venerdì nero del consumismo non apre al futuro ma lo chiude.

Conosciamo anche altri black fridays. Quelli delle borse. Sappiamo che per le borse basta una piccola voce che gira, ed ecco le azioni perdono valore o lo aumentano. Talvolta la dinamicità del crollo delle borse ha delle conseguenze fatali per moltissimi. Il primo black friday accade in Inghilterra 1866 quando una banca è andata in fallimento. 1869 il primo black friday negli USA, 1873 a Vienna e 1929 tutto il mondo va in crisi.

Paolo parla invece di un futuro diverso, non uno che ci porta alla crisi e alla catastrofe climatica – il black friday del consumo – non uno che ci porta all’orlo di crisi mondiali – il black friday delle borse. Per Paolo il black friday appartiene al passato, infatti, la parola black friday nasce dal venerdì santo, quindi dal giorno in cui Gesù di Nazaret è morto sulla croce.

A differenza degli altri black friday della storia umana, questo black friday, quindi il primo black friday per Paolo apre una nuova prospettiva e un nuovo futuro che sarà benedizione e non maledizione. Perché?

Perché alcuni, Paolo incluso, vedono in quella morte atroce sulla croce un atto di amore, lo fanno, perché il messaggio di quell’uomo morto sulla croce è un messaggio contro corrente, contro il clero del tempo, un messaggio concretizzato in azioni e in parole. Il tema principale: l’amore incondizionato di Dio per tutte le sue creatore.

Questo messaggio mette in dubbio il potere costituito per questo Gesù deve morire. Ma la morte non lo vince, dal black friday di Gesù nasce la nuova vita. La tomba vuota è il simbolo di una svolta epocale per il mondo: di non si fa scartare, non si fa eliminare sulla croce. Il maestro itinerante continua a cambiare la sorte del mondo e a aprirci l’orizzonte dell’amore divino. Come sorelle e fratelli siamo tutte e tutti figli e figlie del nostro padre celeste e camminiamo nel campo magnetico del suo amore.

Questo è quanto sta alle spalle di Paolo. Nonostante Paolo non abbia mai conosciuto di persona Gesù Nazaret, Paolo attinge all’amore predicato da Gesù per la sua vita. Gesù porta nuovi orizzonti nella vita di Paolo che da persecutore della giovane chiesa diventa testimone di un amore che niente e nessuno ci può togliere. L’amore di Dio, anche in Paolo, ha cambiato il nemico Paolo in fratello.

Ogni anno ricordiamo questa storia. E con lei, la certezza che essa non sia ancora finita. Dobbiamo però riformulare la domanda: “cosa stiamo aspettando?” Dovrebbe essere: “chi stai aspettando?”

Non tratteniamo più l'amore che ci è stato rivelato in Cristo che tornerà! Perché, come dice Paolo, è l'unica cosa che dobbiamo a Dio e al mondo: non abbiate debiti con nessuno, se non di amarvi reciprocamente.

Tutti gli altri debiti sono stati estinti! Una volta per tutte. Ecco perché l'amore è il rispetto della legge. Il mondo geme e aspetta. L’avvento cerca di ricordarci che il futuro di Dio è già iniziato. Lasciamo che il mondo si possa aspettare qualcosa e che non siamo testimoni dell’amore che nasce dall’unico black friday che ha aperto e non chiuso il futuro

Jens Hansen Mastodon

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Predicazione su Matteo 25, 1-10

Il capitolo 25 dell’Evangelo di Matteo fa parte del discorso profetico di Gesù, io lo chiamerei apocalittico. Il nostro capitolo contiene 3 discorsi, quello nostro, quello dei talenti affidati e il giudizio universale. Il giudizio delle persone inadatte viene espresso con le parole: Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli … a punizione eterna.

Alla persona che non sa mettere a frutto i suoi talenti viene detto: quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì ci sarà pianto e stridor di denti.

E oggi, pochi versetti prima, troviamo lo stesso Gesù apparentemente esclusivo, duro, un Gesù che divide, che esclude, che erige mura o meglio, chiude delle porte, quando dice: Io vi dico in verità: Non vi conosco.

Sbagliamo quindi noi, sbaglio io, che da qualche anno, escludo categoricamente il fatto che il Dio che in Cristo per noi è il Dio d'amore e che viene predicato come tale nelle nostre chiese, poi, quando moriamo per molti diverrebbe un moloc crudele che si compiace di vedere bruciare la gente nell'inferno?

Dovremmo quindi chiederci come mai delle frasi così severe e crudeli siano uscite dalla bocca di Gesù, come mai l'Evangelista Matteo ci presenta un Gesù al di là dell'amore, un Gesù che divide, un Gesù severo?

Per fare ciò conviene capire l’evangelista Matteo e vedere che le sue sono parole ancorate nella propria esperienza che tramanda delle parole di Gesù per la sua chiesa, non come scriba che copia una per una le parole che egli trova nella tradizione, ma come uomo responsabile, uomo di chiesa, della sua chiesa, che ai suoi tempi, quando scrive l'Evangelo, si trova in diverse difficoltà.

Matteo, e solo Matteo, tramanda i discorsi profetici di Gesù, scrivendo a dei credenti della seconda metà del primo secolo. Matteo scrive a una chiesa che letteralmente non sa dove collocarsi. Infatti, il tempo dopo il 70, distruzione di Gerusalemme, è segnato da grandi cambiamenti per le giovani chiese: le sinagoghe ebree non vogliono più i cristiani in mezzo a loro. I discepoli di quel Gesù di Nazaret se ne devono andare, il loro legame con la religione dei padri, con il popolo d'Israele, viene interrotto. Con questa interruzione la chiesa perde la protezione di essere parte di una religio licita, protetta.

Adesso i cristiani devono partecipare a tutte le festività e i sacrifici statali fatti in onore del divino imperatore. I credenti però non vogliono adorare un essere umano, anche se è l'imperatore. Loro vogliono adorare solo ed esclusivamente Dio, il Dio predicato e testimoniato da Gesù.

Questa tensione crea conflitti, conflitti con il potere imperiale ma anche all'interno delle chiese. Sappiamo che non in tutte le province dell'impero applicano con severità la legge. Ci sono province e anche tempi di relativa calma, ma anche periodi di carcerazioni, interrogazioni e pene capitali per i cristiani. Tutto sommato la situazione nella seconda metà del primo secolo è segnato da arbitrarietà degli uffici statali, da un'insicurezza legale, dalla paura nelle chiese.

Quindi, persecuzioni, martirio. In questa situazione molti vedono delusa la loro speranza che il Regno di Dio sarebbe venuto ben presto. Per questo, la parabola, inizialmente scritta come invito alla grande festa del Regno di Dio, diventa un racconto che invita alla pazienza, al fiato lungo, a non disperare in una situazione in cui niente è come sperato. Per dirlo con le parole della parabola: ci vuole l'olio per tenere viva la fiamma della fede.

Dimenticavo: avete sentito? Ascoltato bene? Ho detto: la parabola, è inizialmente scritta come invito alla grande festa del Regno di Dio.

Lo si vede, perché l'inizio, com'è?

Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono a incontrare lo sposo.

All'arrivo dello sposo grande gioia. Le nozze sono un'immagine per il nuovo mondo di Dio, per la comunione con Dio aperta a tutte le donne e tutti gli uomini. La parabola una volta era proprio un grande invito alle nozze, alla comunione con Dio, alla grande festa: dieci vergini che piene di gioia vanno incontro al loro Signore.

Ora, la chiesa di Matteo vede: questa festa ancora non c'è, invece … vedi sopra.. Allora, Matteo dice con questa parabola di avere pazienza, di non disperare, ci vuole fede, coraggio, fiducia che Dio sta per arrivare, anzi è già presente e vuole profondamente cambiare la realtà di questo mondo. La festa c'è, questa certezza, i guastafeste non la possono proprio togliere.

Certo, il Risorto non torna da oggi a domani. La morte non viene superata da oggi a domani. Dio non toglierà le nostre lacrime da oggi a domani. Non vedremo subito il volto amorevole di Dio.

E' difficile scorgere il Regno di Dio in mezzo ad un mondo che viene governato dalla paura, lo era allora e lo è anche oggi.

La parabola di Matteo non vuole escludere ma dare fiducia.

Così parla anche a noi che spesso ci sentiamo impotenti nel nostro agire contro i poteri della morte, contro la fame nel mondo, contro la distruzione dell'ambiente, contro una politica e economia che esclude davvero e utilizza la guerra come mezzo per fare profitti, contro pregiudizi, contro l'odio.

Matteo vuole dirci: guardate la porta non è chiusa, la festa delle nozze, la comunione con Dio è possibile e noi dobbiamo essere coloro che annunciano la festa in mezzo ad un mondo con la voglia di annientarsi.

Oggi potremmo perdere la speranza di fronte alla volontà di tutti di avviare lo scontro armato.

Chi oggi ha il cuore dalla parte della pace, viene fatto tacere e non preso sul serio. Il macchinario della guerra va avanti perché porta soldi nelle tasche di chi già negli anni della crisi ha guadagnato alle nostre spalle. Il regime della paura vuole farci credere che non c'è alternativa. Noi, di fronte alla porta aperta della festa del Regno possiamo invece dire: la guerra è la scelta per le ricchezze: 'facciamo armi, così l'economia si bilancia un po', andiamo avanti con il nostro interesse .

La guerra fa guadagnare sempre alle stesse persone spargendo morte e distruzione.

Noi che vogliamo sperimentare la festa del Regno di Dio, dobbiamo opporci a chi non vuole che la vita sia una festa per tutte e per tutti, dobbiamo opporci con la nostra fede e il nostro coraggio a chi vuole il conflitto e vivere da fautori della pace.

Dobbiamo denunciare chi vende armi e soffia così sul fuoco. Dobbiamo dire al nostro governo e a tutti i governi non solo in Europa, smettetela di vendere armi, di vendere distruzione e miseria e di armarvi.

A proposito miseria. Quando la Grecia era in ginocchio nessun centesimo è andato alla popolazione sofferente. Hanno imposto di smontare il welfare, il sistema sociale, le pensioni nel nome della austerità e dell'equilibrio di bilancio, ora che vogliono fare la guerra, la violenza non conta nel bilancio, è gratuita, anzi la pagheremo noi con ancora meno assistenza, meno welfare, meno pensioni.

La prossima domenica abbiamo la prima dell'avvento, andiamo verso il Natale. Ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, candele, ma in fondo è tutto truccato: il mondo continua a fare la guerra. Il mondo non ha compreso la strada della pace».

Gesù nella Parabola dice: Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono a incontrare lo sposo.

Qui ognuno vuole fare la festa guastando quella degli altri, e alla fine festa non c'è.

Non rimane altro che noi, discepoli di Gesù, annunciamo come ha detto Isaia: Gioite, sì, esultate in eterno per quanto io sto per creare; costruiranno case e le abiteranno; pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto. Non costruiranno più perché un altro abiti, non pianteranno più perché un altro mangi; Il lupo e l'agnello pascoleranno assieme, il leone mangerà il foraggio come il bue, e il serpente si nutrirà di polvere. Non si farà né male né danno su tutto il mio monte santo», dice il SIGNORE.

E Giovanni scrive nell'Apocalisse: non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore.

Jens Hansen Mastodon

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Sermone su Giobbe 14, 1-6

Giobbe lo conosciamo tutte e tutti. E’ l’incarnazione dell’essere umano che soffre, colpito da colpi bassi del destino. Quanto radicale è la sofferenza di quell’uomo. Niente fa immaginare un destino così crudele all’inizio del racconto quando leggiamo: C’era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest’uomo era integro e retto; temeva Dio e fuggiva il male. Giobbe era ricco, pio e ringraziava Dio per tutto ciò che aveva. E poi le catastrofi. Prima sono i buoi e gli asini, poi le pecore, le capre e i cammelli. E alla fine, il colpo più duro: i figli. I suoi 10 figli diventano vittime di una catastrofe naturale.

E’ possibile sopravvivere un tale colpo senza morire di dolore? Giobbe incassa, incassa un colpo dopo l’altro con una forza interiore inimmaginabile: Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo tornerò in grembo alla terra; il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore.

Arriva un altro attacca a Giobbe. Viene colpito da un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi alla sommità del capo. E anche adesso non perde la sua fede: Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo di accettare il male?

Tre amici gli fanno visita. Vedono il suo dolore e si siedono con Giobbe per terra. Non dicono niente. Tacciono per 7 lunghi giorni. Alla fine tutti e quattro sono esausti. Giobbe si sfoga, da spazio alla sua disperazione, alla sua rabbia, alla sua solitudine, al suo dolore. E da spazio alla sua ira contro Dio che gli ha procurato tutti questi guai.

Adesso non abbassa più il suo capo, ora protesta, lancia delle accuse pesanti contro Dio che tratta così male gli esseri umani. Il pio Giobbe non si fa tappare più la bocca.

Quando, da giovane, ho letto questo brano per la prima volta non potevo crederci di trovare parole così dure contro Dio nella Bibbia. Non potevo immaginare come e perché queste parole sono state scritte e tramandate. Non capivo nemmeno gli amici nel loro tentativo di difendere Dio che poi rendeva ancora più difficile la situazione di Giobbe.

Oggi, quasi 50 anni dopo la prima lettura di questo libro e con un po’ di esperienza di vita e 33 anni di ministerio pastorale, sono invece grato per queste parole. In esse trovo un permesso, anzi un invito a tutte le persone sofferenti di non accettare umilmente il dolore, l’ira e le tante domande, ma di urlare, di lanciare grida verso e contro Dio.

Perché dovremmo essere più pii del pio Giobbe?

E’ questo il senso profondo del nostro brano: esso è un invito di portare a Dio tutto ciò che ci rende difficile la vita. La brevità e la fragilità umana per esempio: L’uomo, nato di donna, vive pochi giorni ed è sazio d’affanni. Spunta come un fiore, poi è reciso; fugge come un’ombra, e non dura. Così lo dice Giobbe. E noi sappiamo di che cosa parla. Forse ancora di più quando ci troviamo in ospedale.

Ma non sono sempre le grandi crisi della vita. L’attacco può venire in mezzo alla nostra vita quotidiana e pungere il nostro cuore: quanto corre il tempo, siamo già a novembre. Manca poco per l’inverno. Quanto velocemente è passata l’estate. Dov’è la mia vita? Mi scorre fra le dita. E ci sarà il giorno in cui tutto è finito.

L’inno 345 del nostro innario lo dice così: I nostri dì terreni d'affanno e duol son pieni, qui tutto è vanità; fuggevole passaggio è il breve nostro viaggio che s'apre sull'eternità.

Forse sceglieremmo oggi delle parole diverse, ma il lamento per la vita che ci scorre fra le dita è attuale come quello di Giobbe.

Forse siete sorpresi che Giobbe nella sua sofferenza si lamenta proprio della brevità della vita. Perché per molti sofferenti è un sollievo sapere che il tempo passa e che quindi anche i giorni della sofferenza sono contati.

Ma così non è per Giobbe. Forse perché la sua delusione è più grande della sua stanchezza. Forse perché ha troppe domande aperte e perciò grida per avere delle risposte. Forse perché si aspetta altro da Dio e perciò se la prende apertamente con Dio:

_E sopra un essere così, tu tieni gli occhi aperti e mi fai comparire con te in giudizio! Chi può trarre una cosa pura da una impura? Nessuno. Se i suoi giorni sono fissati, e il numero dei suoi mesi dipende da te, e tu gli hai posto un termine che egli non può varcare, distogli da lui lo sguardo, perché abbia un po’ di tranquillità e possa godere come un operaio la fine della sua giornata. _

Il fatto che Dio abbia creato la nostra esistenza con limiti fragili può già essere causa di tristezza e malinconia. Ma fa anche parte della nostra vita che il limite di 70/80 anni non è nemmeno sicuro. Può andare molto peggio, vedi Giobbe: perso tutto, perso i figli, colpito da una brutta malattia. E gli amici non sono solidali con Giobbe: “E’ colpa tua, Dio avrà le sue ragioni ...” Ma Dio le ha, le sue ragioni?

E’ proprio qui il centro dei dubbi di Giobbe: “Dio, ma che cosa hai veramente in mano contro di me? Il fatto che sono un essere umano e come tale pienamente peccatore? Non puoi pensarlo sul serio! Tutti gli umani sono e fanno così! Fa parte del nostro modo di vivere. E’ normale che talvolta le nostre azioni sono di dubbio valore. E’ normale che non sempre riusciamo a risolvere i nostri conflitti in modo degno. E’ normale che non sempre riconosciamo il male e di conseguenza non lo evitiamo. E’ normale che la nostra cerca di senso talvolta ci può portare a drogarci. Tu, Dio, tu dovresti sapere meglio di noi quanto siamo imperfetti e peccatori. Perché non accetti che siamo così? Perché sorvegli ogni nostro passo? Perché ci valuti con una misura impossibile? Perché ci colpisci con sofferenza? Non mi dire per insegnare rispetto verso di te!”

Cosa potrebbe dare una mano a Giobbe nella sua crisi con Dio? Gli vorrei tanto dare una mano. Una mano diversa da quella martellante degli amici. Lo vorrei fare quando oggi incontro i tanti Giobbe del nostro tempo. Una mia amica pastora da circa 8 anni cappellana di un ospedale scrive: Giobbe, lo trovo oggi nella madre nell’oncologia infantile che dice: ‘non torturare mio figlio’ pensando a Dio. ‘non so dove ho sbagliata, ho cercato di essere una buona madre. Ma tu ci dai un colpo dopo l’altro. Fai soffrire nostro figlio. Non gli hai nemmeno dato la possibilità di andare a scuola. Alle fine ce lo togli. Non è giusto.’ E mia amica continua: Vorrei dare una mano a questa madre. Ma cosa dirle? Non posso mica dire: ‘Dio non è come pensi, non è un tiranna. Queste sono le tue immagina che nascono dalla tua paura, dal profondo della tua anima, ma Dio non è così.’ No, sempre mia amica, queste cose non le posso dire ad una persona sofferente. Teologicamente potrebbero pure reggere le parole, ma la realtà non cambia.

Ma dove è Dio in tutto ciò? Giobbe ha trovato una via non facendosi tappare la bocca e non facendosi correggere dagli amici. Giobbe ha dato voce alla sua disperazione, alla sua rabbia ma anche alla sua sete di senso.

Infatti, ci volevano tante letture di Giobbe per capire il suo desiderio ardente, il desiderio che Dio lo incontrasse in modo diverso. Ci sono tanti tu in questo libro e nel lamento di Giobbe. Tu, Dio, da te aspetto tanto. Tu, Dio, spiegami. Tu Dio, fammi vedere il tuo volto.

Forse Dio ascolta meglio le parole della nostra disperazione di quanto noi pensiamo. Alla fine Dio si avvicina a Giobbe e crea una fede in Dio che fa dire a Giobbe: Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere.

Certo, questa fede non cambia la vita come una bacchetta magica e la realtà di sofferenza non viene spazzata via. Ma essa mette tutto in relazione alla realtà che è più grande e ci fa capire che vediamo solo una piccola frazione della realtà, perciò Giobbe confessa: E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio.

Alla fine possiamo dire con Paolo: l’amore avrà l’ultima parola, tutto sarà amore, l’amore scioglierà tutti i nodi della vita. E, mentre siamo per strada talvolta dobbiamo litigare forte con Dio, ma è proprio per amore che lo possiamo fare.

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Predicazione su Luca 6, 27-38

Noi cristiani cerchiamo di vivere un equilibrio d'amore che Gesù ci ha indicato: amare Dio, amare il prossimo, amare noi stessi. Non a caso lo chiamo un triangolo: perché non è solo un doppio comandamento (Dio + prossimo), ma una relazione a tre, dove ci siamo io, Dio e gli altri.

Ora, il vertice più famoso di questo triangolo è l'amore per il prossimo. È quello che vediamo più spesso, anche fuori dalla Chiesa: pensate a tutti i volontari che si spendono per gli altri senza nemmeno credere in Dio. Certo, a prima vista sembra che l'egoismo sia più diffuso — e in parte è vero, perché l'amore per sé stessi, quando diventa narcisismo, fa più rumore. Ma l'amore per il prossimo non fa notizia: accade nel silenzio, dietro le quinte, e lo praticano in tanti, anche chi non sa nulla di questo “triangolo” perché non conosce Colui che ne è la fonte.

Il problema è che spiegare l'amore per il prossimo non è semplice. Lo sapeva anche Gesù. Non si può ridurre a una formula teorica, altrimenti rischiamo di sceglierci il prossimo comodo: quello che ci somiglia, che ci sta simpatico, che abita vicino a noi. Per questo Gesù non ci fa un discorso astratto, ma racconta una storia: la parabola del buon Samaritano.

Alla fine, chiede: «Chi dei tre è stato prossimo all'uomo derubato?» E la risposta è chiara: «Colui che ha avuto misericordia». Quindi, il prossimo non lo scegliamo noi. Il prossimo è chi fa misericordia. L'amore per il prossimo e la misericordia vanno a braccetto! Dobbiamo amare chiunque ci mostri misericordia, indipendentemente da dove viene o da quanto ci è estraneo. E allo stesso tempo, diventiamo “prossimo” per chi riceve la nostra misericordia.

Gesù conclude: «Va' e fa' altrettanto». La morale? Dai una mano a chi è nel bisogno, sii tu il prossimo per qualcuno, e scoprirai di essere amato come prossimo. Non è facile, lo so. Ma Gesù sa che dentro di noi c'è un desiderio profondo: esser amati. E ci sfida a vivere questo amore attivamente.

Perché l'amore per il prossimo, per quanto bello, non è la sfida più grande della nostra fede. E neanche tutto il “triangolo dell'amore” ci distingue dal mondo. Gesù stesso ci dice: «Se amate solo chi vi ama, che merito ne avete? Anche i peccatori fanno così!»

Il triplo comandamento (Dio, prossimo, sé stessi) è già una base solida... ma Gesù va oltre. Rompe lo schema. E inserisce una categoria di persone che nessuno vorrebbe amare: «Amate i vostri nemici. Fate del bene a chi vi odia. Benedite chi vi maledice. Pregate per chi vi fa del male.»

Che cosa?! Qui il discorso diventa scomodo. Supera ogni logica umana. Come si fa ad amare il nemico?

Pensate a chi, nella vostra vita, vi ha ferito volontariamente: non per sbaglio, non per incomprensione, ma con l'intenzione di farvi male. Persone senza scrupoli, che hanno danneggiato anche chi amate. Esistono, purtroppo. E davanti a loro, non ce la faccio ad amare come dice Gesù. Al massimo, riesco a non augurargli il male. Riesco a pregare per loro? Forse... ma solo per chiedere a Dio che capiscano il dolore che hanno causato.

Eppure, so che Dio li ama lo stesso. Li ama incondizionatamente, anche se non li perdono. Ma io? Non sono Dio.

Non sto parlando delle delusioni normali della vita: un amore finito, un'amicizia tradita. Sto parlando di violenze, torture, guerre. Ascoltate le storie dei profughi di guerra, delle vittime del genocidio, delle vittime di abusi... e poi venitemi a dire: «Fai del bene a chi ti odia».

Che vuole Gesù da noi? A che scopo ci chiede di andare oltre il triangolo, fino ad amare i nemici?

La risposta è che Lui ci è riuscito. Gesù ha amato i suoi nemici. E noi, in fondo, facevamo parte di quella schiera. Lui sa che è umanamente impossibile... ma anche che con Lui diventa possibile.

E poi, ci sono persone che ci riescono. Pensate a Martin Luther King, ucciso 57 anni fa. Nel suo discorso più famoso, diceva: «Vi sfidiamo: fateci tutto il male che volete. Metteteci in prigione, bombardate le nostre case, minacciate i nostri figli... noi continueremo ad amarvi. Perché alla fine, vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno conquisteremo la libertà, ma non solo per noi: conquisteremo anche voi.»

Come si fa? Noi non siamo Martin Luther King. Siamo persone normali, in una chiesa normale. Eppure...

Guardo il mondo: guerre, miseria, catastrofi causate dall'uomo, sofferenza inflitta ad altri... e vedo sempre la stessa reazione, come una legge fissa: «Occhio per occhio, dente per dente.» e c'è chi va pure oltre, dimenticando che la Bibbia già con l'occhio per occhio limita la vendetta. Ricordate il canto di Lamec? **

La violenza genera violenza, che genera altra violenza, in una spirale senza fine. L'amore per il prossimo, spesso, cura solo i sintomi di questo male. Ma non basta.

Eppure, in mezzo a tutto questo, la gente sogna la pace. Come scrive il profeta Michea: «Fonderanno le spade in aratri, le lance in falci. Nessuno imparerà più la guerra.»

E allora capisco cosa vuole Gesù: Qualcuno deve iniziare. Qualcuno deve rompere il circolo della violenza, non limitandosi a tamponare le ferite, ma interrompendo la catena.

E l'unico modo è amare il nemico. Solo se fai del bene a chi ti odia. Solo se preghi per chi ti perseguita. Solo se dai più di quanto ti viene chiesto. Solo così hai in mano la chiave per un regno di pace.

Non so se ne sono capace. Ma la speranza di un mondo diverso si basa su una verità: Gesù ci ha già mostrato la via. Ha vinto questa sfida. Ha portato un soffio di pace in un mondo violento.

A Lui ci affidiamo, non perché ci chieda l'impossibile, ma perché ci ha dato la forza per provarci. Non ha pronunciato queste parole a caso. Sa che possiamo farcela, anche se sembra una follia.

E questo apre una speranza: per me, per il mondo, per superare finalmente la legge del «occhio per occhio».

Perché qualcuno deve iniziare. E quel qualcuno potrei essere io. Potresti essere tu.

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Sermone su Deuteronomio 6, 4-9

Nella Bibbia ebraica lo Sh’ma Israel inizia e finisce con due lettere più grandi del normale. È come se la Parola ci gridasse: “Fate attenzione! Qui c’è il centro di tutto.” Sono le prime parole insegnate a un bambino ebreo, le parole che un credente ripete ogni giorno e che desidera sulle labbra all’ultimo respiro.

Gesù di Nazaret le chiama “il grande e il primo comandamento”. Prima di leggi, racconti, inni e profeti, viene questo: amare Lui, l’Uno e l’Unico. Non un’idea, ma uno stile di vita; non un dettaglio, ma il punto di partenza e l’ultimo respiro.

L’Uno e l’Unico

Lo Sh’ma si può tradurre in due modi, entrambi veri e complementari: – “Ascolta, Israele: il Signore, il nostro Dio, il Signore è l’unico!” – “Ascolta, Israele: il Signore, il nostro Dio, il Signore è uno solo!”

Unicità e unità. Due accenti, un’unica melodia. Come dirà Paolo: “Da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose” (Romani 11,36). Dio è l’Uno e l’Unico: troppo grande per stare in un cassetto, troppo ricco per un solo nome. La Scrittura gli dà molti nomi proprio perché nessuno basta da solo.

Chiesa: molte differenze, un solo desiderio

Se Dio è uno, la Chiesa… non sempre lo sembra. La storia ce lo ricorda: la Riforma del XVI secolo ha moltiplicato le tradizioni e, col tempo, si sono aggiunte nuove sfumature. Del resto, anche l’ebraismo ha conosciuto pluralità fin dall’inizio.

Questa varietà può essere una grazia, a una condizione: che resti vivo in noi il desiderio dell’unità. Quando questo desiderio si spegne, cresce l’autosufficienza. E l’autosufficienza chiude. Allora nascono criteri esclusivi, “noi sì, gli altri no”, ri-battezzarsi per “entrare” altrove, frasi come “solo da noi c’è salvezza”. È una china pericolosa: il passo verso il settarismo è breve, e l’Ecumene si spegne.

Oltre il semplice rispetto: l’incontro che scalda il cuore

Nella società abbiamo bisogno di più rispetto, è vero. Ma per noi cristiani il rispetto è solo l’antipasto. Il Vangelo ci chiama a qualcosa di più: l’incontro. L’incontro è quando apriamo la porta e lasciamo entrare il calore dell’altro. È quando permettiamo che il nostro cuore sia toccato da un modo diverso di pensare, da un colore diverso, da una voce che non è la nostra, da un ritmo a cui non siamo abituati.

Eppure anche noi cristiani, per paura o incertezza, ci chiudiamo in gruppi “sicuri”, con etichette rassicuranti e maschere di “ortodossia perfetta”. Ma la verità del Vangelo ci libera: un vero incontro chiede che molliamo gli ormeggi, come una nave che lascia il molo. Che ci fidiamo dell’amore e della fedeltà dell’Uno che vuole essere anche il nostro Dio. Allora nasce il desiderio di restare con Lui: cantare, volare, danzare; vivere senza paura dell’altro, senza avversione per le sue domande.

L’altro è necessario alla mia fede

Credere nell’Unico Signore non è sopportare le differenze: è amarle, perché attraverso l’altro Dio allarga il nostro sguardo. E qui, con semplicità, riconosciamo il cammino che abbiamo fatto:

  • Comunicazione che non comunica: all’inizio ci siamo parlati addosso. Pensiamo a Lutero e a Roma: non si sono capiti davvero, linguaggi e presupposti diversi, e la conversazione è diventata muro.
  • Il dibattito: poi abbiamo imboccato la via del “convincere”. Il dibattito prova a tirare l’altro verso di sé, a vincere invece che comprendere. Ha prodotto chiarezze, sì, ma anche ferite. E non ha funzionato come via di comunione.
  • Il dialogo: oggi il Vangelo ci spinge oltre. Serve il dialogo che mette insieme orizzonti. Gadamer parlava di “fusione di orizzonti”: non annullare le differenze, ma lasciarle incontrare finché nasce un vedere più ampio di ciò che ciascuno vedeva da solo. È il coraggio di ascoltare per comprendere, di interpretare insieme, di lasciarsi convertire dalla verità che ci precede e ci supera.

Per questo l’altro non è un ostacolo alla mia fede: è la strada su cui la mia fede matura. L’Uno, con i suoi molti nomi, è così bello e vasto che, per rendergli un po’ di giustizia, ho bisogno dell’altro—non di un altro uguale a me, ma di un altro davvero altro. Così la Chiesa diventa un’anticipazione credibile di ciò che sarà: uno spazio dove il Nome dell’Unico trova casa. Nella sua casa ci sono molte dimore. Non siamo qui per noi stessi. Dio ha tanto amato il mondo — questo mondo variegato, colorato, multiforme. Lui, il Signore, l’Unico e l’Uno.

Invito finale

Allora, oggi, ripartiamo dallo Sh’ma: – Ascoltiamo davvero, senza parlare addosso. – Lasciamo il dibattito sterile e scegliamo il dialogo che unisce orizzonti. – Amiamo con i fatti, incontriamo senza paura, camminiamo insieme.

E mentre ascoltiamo, che la nostra vita dica con semplicità e forza: “Il Signore è uno solo. Il Signore è l’unico.”

Pubblico qui anche il saluto dell'Arcivescovo Mons. Riccardo Lamba

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La Resistenza come testimonianza: memoria, fede e impegno in tempi di nuove ombre

oggi mi ritrovo per la prima volta sul passo Rest sia in chiave “turistica” sia come l'uogo di memoria e di dolore, ma anche di coraggio e di speranza. Ottantun'anni fa, su queste montagne, giovani come Giuseppe Zambon e Armando Facchin, come Luciano Pradolin e Gio Batta Da Pozzo, scelsero di opporsi al nazifascismo non per odio, ma per amore della libertà.

Non furono eroi per caso: furono uomini e donne che, di fronte all'inumanità, seppero dire no, pagando con la vita la fedeltà a un ideale di giustizia. Tra loro, c'erano dei credenti che vissero la fede non come fuga dal mondo, ma come chiamata a trasformarlo.

1. La Chiesa Confessante di Barmen: quando la fede diventa resistenza

Nel maggio 1934, mentre il nazismo consolidava il suo potere, un gruppo di teologi e pastori protestanti tedeschi si riunì a Barmen per dire basta alla sottomissione delle Chiese al regime. La Dichiarazione teologica di Barmen — redatta da Karl Barth e altri — fu un grido di verità in un'epoca di menzogna. Affermava che:

«Gesù Cristo, come è attestato nelle Scritture, è l'unica Parola di Dio che dobbiamo ascoltare, cui dobbiamo obbedire in vita e in morte». E aggiungeva: «Noi respingiamo la falsa dottrina secondo cui la Chiesa potrebbe o dovrebbe riconoscere, al di là e accanto a questa unica Parola di Dio, altre fonti di rivelazione».

Era una sfida diretta al culto del Führer e all'idolatria della razza e della nazione. La Chiesa Confessante — a cui aderì anche Dietrich Bonhoeffer, poi impiccato dai nazisti — scelse di non tacere. Denunciò che il cristianesimo non può essere ridotto a una religione di Stato, né piegato a giustificare l'oppressione. Per questo, molti suoi membri finirono nei lager o al patibolo.

Luciano Pradolin, valdese e partigiano, incarna questa stessa coerenza. Nella lettera alla sorella scrisse: «L'unica cosa che mi sostiene è la fede in Dio e la sicurezza che la mia coscienza è pura e il mio ideale è sacro». Come i teologi di Barmen, seppe che la fede senza giustizia è vuota, e che la libertà è un dono da difendere con gli altri, per gli altri.

2. Il vento freddo del presente: perché la Resistenza ci interroga ancora

Oggi, mentre ci inchiniamo davanti a questi cippi, il mondo sembra scivolare indietro. La guerra è tornata in Europa, i nazionalismi esaltano muri e paure, il razzismo si traveste da “difesa identitaria”, e persino il saluto fascista riaffiora come provocazione o nostalgia. Intanto, le parole paceaccoglienzafratellanza vengono derise come ingenuità.

Eppure, la storia ci insegna che l'indifferenza è la prima alleata della barbarie. I partigiani lo sapevano: quando i nazisti e i fascisti deportavano, torturavano, bruciavano paesi, non si poteva “stare alla finestra”. Oggi, di fronte alle guerre in Ucraina, in Palestina, in Sudan, di fronte ai naufragi nel Mediterraneo e alle leggi che criminalizzano la solidarietà, non possiamo permetterci di voltare lo sguardo.

La Resistenza non fu solo una lotta armata: fu una scelta etica. Fu la convinzione che nessuno è libero finché qualcuno è oppresso, che la dignità umana non ha confini di razza o di fede. Luciano Pradolin e i suoi compagni ci hanno lasciato un testamento: la libertà si custodisce agendo, non solo ricordando.

3. Trasformare l'energia della guerra in energia d'amore

Il teologo Jürgen Moltmann, che da giovane soldato tedesco fu prigioniero in Inghilterra e poi divenne una voce profetica della pace, scrisse:

«Dobbiamo trasformare l'energia criminale in energia dell'amore, la guerra in pace, riscattare l'inimicizia in amicizia e le violenze mortali in forza di vita».

Questo è il compito che ci consegna la memoria del Passo Rest:

  • Rifiutare ogni complicità con chi semina odio, chi strumentalizza il dolore altrui, chi costruisce nemici per nascondere le proprie responsabilità.
  • Essere “Chiesa confessante” oggi: non solo nelle parole, ma nei gesti. Come le comunità valdesi che durante la guerra nascose ebrei e perseguiti, o come i cattolici che, nonostante il silenzio di molti vescovi, salvarono vite (pensiamo a don Milani o a Giorgio La Pira).
  • Costruire ponti, non muri. La Resistenza fu unita nella diversità: cattolici e comunisti, operai e contadini, intellettuali e analfabeti. Oggi, di fronte alle divisioni, dobbiamo ritrovare quella capacità di fare alleanza per il bene comune.

Conclusione: la libertà è un cantiere sempre aperto

Luciano Pradolin, prima di morire, scrisse alla madre:

 «In realtà mi dispiace lasciare la vita, particolarmente ora che avevo capito il grande significato».

Aveva capito che la vita vale solo se spesa per qualcosa più grande di noi: la giustizia, la pace, la libertà dell'altro.

Oggi, in questo luogo sacro alla memoria, non siamo chiamati solo a piangere i morti, ma a onorarli vivendo da liberi. Liberi dalla paura del diverso, liberi dall'indifferenza, liberi dal cinismo che dice “tanto non cambia nulla”.

La Resistenza ci ricorda che il futuro si costruisce con scelte quotidiane:

  • Quando accogliamo un migrante, stiamo dicendo no al razzismo.
  • Quando denunciamo una ingiustizia, stiamo dicendo no all'oppressione.
  • Quando educhiamo i giovani alla pace, stiamo dicendo no alla cultura della guerra.

Non è retorica: è resistenza.

Grazie a Giuseppe, Armando, Luciano, Gio Batta e a tutti coloro che qui combatterono e morirono. Il loro sacrificio non sarà vano se sapremo essere, oggi, costruttori di pace come loro furono combattenti per la libertà.

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predicazione su Giacomo 2,14-26

Oggi la Parola ci provoca con franchezza: “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? … La fede senza le opere è morta” (Giac 2,14.26). Non è un rimprovero amaro: è un invito a verificare il polso della nostra vita spirituale. Come il respiro si vede nel petto che si alza e si abbassa, così la fede si vede nei gesti che compiamo. Se non si vede, forse non sta respirando.

1) Non fede contro opere, ma fede che genera opere C’è chi oppone Giacomo a Paolo, come se uno dicesse “contano solo le opere” e l’altro “conta solo la fede”. La Scrittura, però, ci racconta un’unica buona notizia: tutto nasce dalla grazia di Dio, che ci ama per primo, ci perdona e ci mette in piedi. La salvezza non si compra. Ma proprio perché è dono, la grazia non resta ferma: mette in moto la vita. La fede viva produce frutti; la fede morta resta parola. Non sono le opere a comprare Dio; è Dio a rendere possibili opere buone che profumano di Vangelo. Pensiamo a un albero: non fa frutti per diventare albero; fa frutti perché è vivo. Così è la fede: non facciamo il bene per meritarci qualcosa, ma perché abbiamo ricevuto vita nuova.

2) Abramo e Raab: custodire la vita e aprire la casa Giacomo propone due figure per spiegare meglio quanto ha in mente e vuole condividere con i suoi: • Abramo è messo alla prova in un racconto duro. La mano non si abbassa su Isacco: Dio non chiede sacrifici disumani; Dio custodisce la vita. La fede vera non uccide l’umano; si fida del Dio della vita, anche quando non capisce tutto.

• Raab, donna straniera, apre casa sua a dei forestieri e rischia per salvarli. Non appartiene al popolo d’Israele, eppure compie ciò che la fede chiede: accoglienza, coraggio, protezione dei vulnerabili. Qui impariamo un’umiltà necessaria: a volte il bene arriva da dove non ce lo aspettiamo. Il Signore guarda al cuore e ai gesti. La lezione è semplice: non basta dire “credo”; anche i demoni “sanno” che Dio esiste, ma tremano. La domanda è: che cosa fa la nostra fede alle mani, al tempo, al portafoglio, alle parole? Dove si vede?

3) Grazia che perdona e trasforma Dio non ci chiede di fare i forti. Ci offre la sua grazia: ci rialza, ci perdona, ci cambia. La fede non è un esercizio di volontà solitaria. È relazione con il Vivente, che entra nelle fatiche quotidiane, nelle case, nei conti che non tornano, nei nostri limiti. Per questo ciò che oggi ascoltiamo non è un “devi” schiacciante, ma un “puoi”: puoi vivere da persona libera, resa capace di bene. E quando cadi, puoi rialzarti.

4) Santità del cuore e della città La fede tocca il cuore, ma non si ferma lì. Scende nelle strade: nel lavoro, nella scuola, nella spesa, nelle scelte economiche, nella cura del creato, nella convivenza civile. La santità non è fuga dal mondo; è il modo nuovo di abitarlo. Non basta essere “brave persone” in privato; il Vangelo domanda anche gesti pubblici, miti e fermi, che costruiscono giustizia e pace. Allora proviamo a essere concreti. Oggi chiedo alla comunità di accogliere tre passi semplici e seri, alla portata di tutti. Non tutto, ma qualcosa. Non perfetto, ma fedele.

5) Tre passi concreti 1) Azioni concrete nel nostro vissuto • turni al banco alimentare locale o di rete; • raccolta e distribuzione di generi di prima necessità e “spesa sospesa”; • un piccolo emporio solidale con orari stabili e una squadra di volontari; • accompagnamento a visite mediche o a uffici per chi è solo; • doposcuola gratuito per ragazze e ragazzi; • laboratorio di riparazione e riuso per allungare la vita degli oggetti e aiutare chi è in difficoltà; • uno sportello di ascolto discreto per famiglie in affanno. 2) Conversione dello stile: comunità e singoli La fede diventa visibile in uno stile di vita più sobrio e sostenibile. Due livelli, inseparabili. • Come comunità: ◦ controlliamo consumi e spese della chiesa; ◦ passiamo, dove possibile, a energia da fonti rinnovabili; ◦ riduciamo rifiuti e plastica monouso (stoviglie riutilizzabili, acqua alla spina); ◦ adottiamo criteri di acquisto responsabile; ◦ creiamo o sosteniamo un gruppo d’acquisto solidale; ◦ organizziamo mobilità condivisa per gli incontri comunitari; ◦ rendicontiamo ogni anno i passi compiuti e quelli ancora da fare. • Come persone: ◦ scegliamo, quando possiamo, piedi, bici, trasporto pubblico; ◦ riduciamo lo spreco alimentare e impariamo una cucina del riuso; ◦ limitiamo il consumo di carne e privilegiamo filiere locali e solidali; ◦ chiediamo al nostro fornitore energia 100% rinnovabile; ◦ usiamo strumenti finanziari il più possibile etici e trasparenti; ◦ curiamo il quartiere con piccoli gesti: pulizia, attenzione agli anziani soli, custodia degli spazi comuni. Queste non sono fissazioni: sono modi concreti per dire che crediamo in un Dio che affida la terra all’umana responsabilità e ci chiama alla giustizia verso i poveri e verso le generazioni future. 3) Voce pubblica mite e ferma La fede non urla, ma non tace davanti al male. Sosteniamo iniziative nonviolente e umanitarie; chiediamo protezione dei civili, corridoi sicuri, rispetto del diritto; preghiamo per chi è sotto le bombe, per gli ostaggi e i prigionieri, per chi salva vite in mare e a terra. Mettiamo a disposizione tempo, competenze, reti. Facciamo spazio a testimonianze e collaborazioni con realtà affidabili del territorio. Senza partigianerie, ma con coraggio evangelico.

6) Il carburante: Parola, preghiera, mensa, comunità Qualcuno potrebbe dire: “Bello, ma poi ci si stanca.” È vero: senza radici ci si secca. Per questo servono i “mezzi ordinari” con cui Dio ci nutre. • La Parola: ascoltata nel culto, ma anche a casa. Bastano pochi minuti al giorno, una lettura breve e una domanda: “Che gesto mi suggerisce oggi?” • La preghiera: semplice e fedele, personale e comunitaria. Intercedere per altri ci libera dall’io e ci educa alla compassione. • La mensa del Signore: là riceviamo grazia e comunione, e ne usciamo inviati. • La vita fraterna: piccoli gruppi di condivisione e responsabilità reciproca, dove raccontiamo passi compiuti e passi mancati, e preghiamo gli uni per gli altri. La domenica non basta: la settimana è il luogo della fede che si vede.

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