Jens

Pastore delle chiese metodiste di Udine e di Gorizia

La Resistenza come testimonianza: memoria, fede e impegno in tempi di nuove ombre

oggi mi ritrovo per la prima volta sul passo Rest sia in chiave “turistica” sia come l'uogo di memoria e di dolore, ma anche di coraggio e di speranza. Ottantun'anni fa, su queste montagne, giovani come Giuseppe Zambon e Armando Facchin, come Luciano Pradolin e Gio Batta Da Pozzo, scelsero di opporsi al nazifascismo non per odio, ma per amore della libertà.

Non furono eroi per caso: furono uomini e donne che, di fronte all'inumanità, seppero dire no, pagando con la vita la fedeltà a un ideale di giustizia. Tra loro, c'erano dei credenti che vissero la fede non come fuga dal mondo, ma come chiamata a trasformarlo.

1. La Chiesa Confessante di Barmen: quando la fede diventa resistenza

Nel maggio 1934, mentre il nazismo consolidava il suo potere, un gruppo di teologi e pastori protestanti tedeschi si riunì a Barmen per dire basta alla sottomissione delle Chiese al regime. La Dichiarazione teologica di Barmen — redatta da Karl Barth e altri — fu un grido di verità in un'epoca di menzogna. Affermava che:

«Gesù Cristo, come è attestato nelle Scritture, è l'unica Parola di Dio che dobbiamo ascoltare, cui dobbiamo obbedire in vita e in morte». E aggiungeva: «Noi respingiamo la falsa dottrina secondo cui la Chiesa potrebbe o dovrebbe riconoscere, al di là e accanto a questa unica Parola di Dio, altre fonti di rivelazione».

Era una sfida diretta al culto del Führer e all'idolatria della razza e della nazione. La Chiesa Confessante — a cui aderì anche Dietrich Bonhoeffer, poi impiccato dai nazisti — scelse di non tacere. Denunciò che il cristianesimo non può essere ridotto a una religione di Stato, né piegato a giustificare l'oppressione. Per questo, molti suoi membri finirono nei lager o al patibolo.

Luciano Pradolin, valdese e partigiano, incarna questa stessa coerenza. Nella lettera alla sorella scrisse: «L'unica cosa che mi sostiene è la fede in Dio e la sicurezza che la mia coscienza è pura e il mio ideale è sacro». Come i teologi di Barmen, seppe che la fede senza giustizia è vuota, e che la libertà è un dono da difendere con gli altri, per gli altri.

2. Il vento freddo del presente: perché la Resistenza ci interroga ancora

Oggi, mentre ci inchiniamo davanti a questi cippi, il mondo sembra scivolare indietro. La guerra è tornata in Europa, i nazionalismi esaltano muri e paure, il razzismo si traveste da “difesa identitaria”, e persino il saluto fascista riaffiora come provocazione o nostalgia. Intanto, le parole paceaccoglienzafratellanza vengono derise come ingenuità.

Eppure, la storia ci insegna che l'indifferenza è la prima alleata della barbarie. I partigiani lo sapevano: quando i nazisti e i fascisti deportavano, torturavano, bruciavano paesi, non si poteva “stare alla finestra”. Oggi, di fronte alle guerre in Ucraina, in Palestina, in Sudan, di fronte ai naufragi nel Mediterraneo e alle leggi che criminalizzano la solidarietà, non possiamo permetterci di voltare lo sguardo.

La Resistenza non fu solo una lotta armata: fu una scelta etica. Fu la convinzione che nessuno è libero finché qualcuno è oppresso, che la dignità umana non ha confini di razza o di fede. Luciano Pradolin e i suoi compagni ci hanno lasciato un testamento: la libertà si custodisce agendo, non solo ricordando.

3. Trasformare l'energia della guerra in energia d'amore

Il teologo Jürgen Moltmann, che da giovane soldato tedesco fu prigioniero in Inghilterra e poi divenne una voce profetica della pace, scrisse:

«Dobbiamo trasformare l'energia criminale in energia dell'amore, la guerra in pace, riscattare l'inimicizia in amicizia e le violenze mortali in forza di vita».

Questo è il compito che ci consegna la memoria del Passo Rest:

  • Rifiutare ogni complicità con chi semina odio, chi strumentalizza il dolore altrui, chi costruisce nemici per nascondere le proprie responsabilità.
  • Essere “Chiesa confessante” oggi: non solo nelle parole, ma nei gesti. Come le comunità valdesi che durante la guerra nascose ebrei e perseguiti, o come i cattolici che, nonostante il silenzio di molti vescovi, salvarono vite (pensiamo a don Milani o a Giorgio La Pira).
  • Costruire ponti, non muri. La Resistenza fu unita nella diversità: cattolici e comunisti, operai e contadini, intellettuali e analfabeti. Oggi, di fronte alle divisioni, dobbiamo ritrovare quella capacità di fare alleanza per il bene comune.

Conclusione: la libertà è un cantiere sempre aperto

Luciano Pradolin, prima di morire, scrisse alla madre:

 «In realtà mi dispiace lasciare la vita, particolarmente ora che avevo capito il grande significato».

Aveva capito che la vita vale solo se spesa per qualcosa più grande di noi: la giustizia, la pace, la libertà dell'altro.

Oggi, in questo luogo sacro alla memoria, non siamo chiamati solo a piangere i morti, ma a onorarli vivendo da liberi. Liberi dalla paura del diverso, liberi dall'indifferenza, liberi dal cinismo che dice “tanto non cambia nulla”.

La Resistenza ci ricorda che il futuro si costruisce con scelte quotidiane:

  • Quando accogliamo un migrante, stiamo dicendo no al razzismo.
  • Quando denunciamo una ingiustizia, stiamo dicendo no all'oppressione.
  • Quando educhiamo i giovani alla pace, stiamo dicendo no alla cultura della guerra.

Non è retorica: è resistenza.

Grazie a Giuseppe, Armando, Luciano, Gio Batta e a tutti coloro che qui combatterono e morirono. Il loro sacrificio non sarà vano se sapremo essere, oggi, costruttori di pace come loro furono combattenti per la libertà.

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predicazione su Giacomo 2,14-26

Oggi la Parola ci provoca con franchezza: “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? … La fede senza le opere è morta” (Giac 2,14.26). Non è un rimprovero amaro: è un invito a verificare il polso della nostra vita spirituale. Come il respiro si vede nel petto che si alza e si abbassa, così la fede si vede nei gesti che compiamo. Se non si vede, forse non sta respirando.

1) Non fede contro opere, ma fede che genera opere C’è chi oppone Giacomo a Paolo, come se uno dicesse “contano solo le opere” e l’altro “conta solo la fede”. La Scrittura, però, ci racconta un’unica buona notizia: tutto nasce dalla grazia di Dio, che ci ama per primo, ci perdona e ci mette in piedi. La salvezza non si compra. Ma proprio perché è dono, la grazia non resta ferma: mette in moto la vita. La fede viva produce frutti; la fede morta resta parola. Non sono le opere a comprare Dio; è Dio a rendere possibili opere buone che profumano di Vangelo. Pensiamo a un albero: non fa frutti per diventare albero; fa frutti perché è vivo. Così è la fede: non facciamo il bene per meritarci qualcosa, ma perché abbiamo ricevuto vita nuova.

2) Abramo e Raab: custodire la vita e aprire la casa Giacomo propone due figure per spiegare meglio quanto ha in mente e vuole condividere con i suoi: • Abramo è messo alla prova in un racconto duro. La mano non si abbassa su Isacco: Dio non chiede sacrifici disumani; Dio custodisce la vita. La fede vera non uccide l’umano; si fida del Dio della vita, anche quando non capisce tutto.

• Raab, donna straniera, apre casa sua a dei forestieri e rischia per salvarli. Non appartiene al popolo d’Israele, eppure compie ciò che la fede chiede: accoglienza, coraggio, protezione dei vulnerabili. Qui impariamo un’umiltà necessaria: a volte il bene arriva da dove non ce lo aspettiamo. Il Signore guarda al cuore e ai gesti. La lezione è semplice: non basta dire “credo”; anche i demoni “sanno” che Dio esiste, ma tremano. La domanda è: che cosa fa la nostra fede alle mani, al tempo, al portafoglio, alle parole? Dove si vede?

3) Grazia che perdona e trasforma Dio non ci chiede di fare i forti. Ci offre la sua grazia: ci rialza, ci perdona, ci cambia. La fede non è un esercizio di volontà solitaria. È relazione con il Vivente, che entra nelle fatiche quotidiane, nelle case, nei conti che non tornano, nei nostri limiti. Per questo ciò che oggi ascoltiamo non è un “devi” schiacciante, ma un “puoi”: puoi vivere da persona libera, resa capace di bene. E quando cadi, puoi rialzarti.

4) Santità del cuore e della città La fede tocca il cuore, ma non si ferma lì. Scende nelle strade: nel lavoro, nella scuola, nella spesa, nelle scelte economiche, nella cura del creato, nella convivenza civile. La santità non è fuga dal mondo; è il modo nuovo di abitarlo. Non basta essere “brave persone” in privato; il Vangelo domanda anche gesti pubblici, miti e fermi, che costruiscono giustizia e pace. Allora proviamo a essere concreti. Oggi chiedo alla comunità di accogliere tre passi semplici e seri, alla portata di tutti. Non tutto, ma qualcosa. Non perfetto, ma fedele.

5) Tre passi concreti 1) Azioni concrete nel nostro vissuto • turni al banco alimentare locale o di rete; • raccolta e distribuzione di generi di prima necessità e “spesa sospesa”; • un piccolo emporio solidale con orari stabili e una squadra di volontari; • accompagnamento a visite mediche o a uffici per chi è solo; • doposcuola gratuito per ragazze e ragazzi; • laboratorio di riparazione e riuso per allungare la vita degli oggetti e aiutare chi è in difficoltà; • uno sportello di ascolto discreto per famiglie in affanno. 2) Conversione dello stile: comunità e singoli La fede diventa visibile in uno stile di vita più sobrio e sostenibile. Due livelli, inseparabili. • Come comunità: ◦ controlliamo consumi e spese della chiesa; ◦ passiamo, dove possibile, a energia da fonti rinnovabili; ◦ riduciamo rifiuti e plastica monouso (stoviglie riutilizzabili, acqua alla spina); ◦ adottiamo criteri di acquisto responsabile; ◦ creiamo o sosteniamo un gruppo d’acquisto solidale; ◦ organizziamo mobilità condivisa per gli incontri comunitari; ◦ rendicontiamo ogni anno i passi compiuti e quelli ancora da fare. • Come persone: ◦ scegliamo, quando possiamo, piedi, bici, trasporto pubblico; ◦ riduciamo lo spreco alimentare e impariamo una cucina del riuso; ◦ limitiamo il consumo di carne e privilegiamo filiere locali e solidali; ◦ chiediamo al nostro fornitore energia 100% rinnovabile; ◦ usiamo strumenti finanziari il più possibile etici e trasparenti; ◦ curiamo il quartiere con piccoli gesti: pulizia, attenzione agli anziani soli, custodia degli spazi comuni. Queste non sono fissazioni: sono modi concreti per dire che crediamo in un Dio che affida la terra all’umana responsabilità e ci chiama alla giustizia verso i poveri e verso le generazioni future. 3) Voce pubblica mite e ferma La fede non urla, ma non tace davanti al male. Sosteniamo iniziative nonviolente e umanitarie; chiediamo protezione dei civili, corridoi sicuri, rispetto del diritto; preghiamo per chi è sotto le bombe, per gli ostaggi e i prigionieri, per chi salva vite in mare e a terra. Mettiamo a disposizione tempo, competenze, reti. Facciamo spazio a testimonianze e collaborazioni con realtà affidabili del territorio. Senza partigianerie, ma con coraggio evangelico.

6) Il carburante: Parola, preghiera, mensa, comunità Qualcuno potrebbe dire: “Bello, ma poi ci si stanca.” È vero: senza radici ci si secca. Per questo servono i “mezzi ordinari” con cui Dio ci nutre. • La Parola: ascoltata nel culto, ma anche a casa. Bastano pochi minuti al giorno, una lettura breve e una domanda: “Che gesto mi suggerisce oggi?” • La preghiera: semplice e fedele, personale e comunitaria. Intercedere per altri ci libera dall’io e ci educa alla compassione. • La mensa del Signore: là riceviamo grazia e comunione, e ne usciamo inviati. • La vita fraterna: piccoli gruppi di condivisione e responsabilità reciproca, dove raccontiamo passi compiuti e passi mancati, e preghiamo gli uni per gli altri. La domenica non basta: la settimana è il luogo della fede che si vede.

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Predicazione su Giacomo 2, 14-26

Solo per grazia – solo per fede. Così crediamo come protestanti di essere salvati. Così lo ha proclamato al mondo, tanti anni fa, lo stesso Martin Lutero. Dio non si lascia manipolare dalle buone opere né corrompere dall’acquisto di indulgenze. Il suo amore e la sua grazia non possono essere meritati da nessuno: sono un dono. Eppure, nel brano della Lettera di Giacomo che abbiamo appena ascoltato, troviamo parole che sembrano contraddire radicalmente questo principio, oggi considerato un pilastro della dottrina evangelica.

Potremmo riassumere così il passaggio di Giacomo: Solo chi fa il bene è riconosciuto come persona giusta. A prima vista, le posizioni di Giacomo e Lutero – e, prima ancora, di Giacomo e Paolo – appaiono inconciliabili.

Per Giacomo, infatti, la fede senza le opere è morta: una fede priva di azioni concrete non può salvare, contraddicendo così la famosa affermazione di Paolo ai Romani: «Riteniamo che l’uomo è giustificato per fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rm 3,28). Paolo, nel suo scritto, spiega che nessuno può diventare giusto davanti a Dio osservando scrupolosamente la Legge di Mosè. La giustizia e la grazia di Dio sono state donate a tutti attraverso la morte di Gesù sulla croce: un dono che gli esseri umani possono solo accogliere, per pura fede in ciò che è accaduto in Galilea.

Le false dottrine che circolavano a Roma in quel tempo contrastavano violentemente con questo messaggio, seminando confusione tra i primi cristiani. Paolo scrive loro che le leggi divine – quelle che il popolo conosceva dai cinque libri di Mosè – non sono state abolite, ma il loro mero rispetto non basta per ottenere la salvezza. E, proprio come Giacomo, anche Paolo cita Abramo come prova della propria tesi. Come è possibile, allora, che due autori usino la stessa storia per dimostrare affermazioni apparentemente opposte?

La risposta sta nel contesto. Né Giacomo né Paolo conoscevano esattamente le parole dell’altro: vivevano in luoghi diversi, rispondevano a domande diverse poste da comunità diverse. Eppure, se li leggiamo con attenzione, i loro scritti non si contraddicono, ma si completano. Basta osservare il significato che ognuno dà alla parola “opere”. Giacomo parla delle azioni concrete di chi ha già accolto la fede e, grazie a essa, è stato salvato.

Paolo, invece, scrive ai Romani delle “opere morte” – cioè quelle compiute senza fede, per mero adempimento legale – e delle “opere della Legge”, che non possono scaturire da una vera fiducia in Gesù Cristo e nella redenzione operata dalla sua morte. Lo stesso Paolo, del resto, in altri passi della Lettera ai Romani menziona le “buone opere” (proprio quelle di cui parla Giacomo), distinguendole chiaramente dalle prime.

In altre parole: nessuna opera, per quanto nobile, può costringere Dio a concedere la sua grazia. Ma chi ha ricevuto questo dono e l’ha accolto nel cuore non può fare a meno di tradurlo in azioni.

È come un bambino che desidera con tutto se stesso un regalo: per quanto si impegni, non potrà mai meritarselo veramente. Quando il dono arriva, però, la sua gioia più grande sarà condividerlo con gli amici. Se il bambino si limitasse a parlarne senza mostrarlo, nessuno gli crederebbe; ma se lo porta con sé o ne mostra una foto, la sua storia acquista credibilità. Così accade con la fede: le parole da sole non bastano, servono segni tangibili.

Torniamo a Giacomo: «Tu hai la fede, io ho le opere. Mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,18). E ancora: «Come il corpo senza lo spirito è morto, così la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Chi si limita a parlare di carità ma si chiude in casa, indossando paraocchi e vivendo secondo il principio «prima io, poi il diluvio», non potrà mai sperare che la sua fede da sola gli apra le porte della salvezza eterna. Una fede fatta solo di parole vuote è, nel vero senso della parola, «molto rumore per nulla».

Se guardiamo le cose da questa prospettiva, le opere assumono un ruolo nuovo: sono l’espressione vivente della fede. Le buone opere non possono generare la fede; e chi le compie senza credere può forse ingannare gli altri, ma non Dio. Ma chi crede autenticamente è spinto dalla sua stessa fede a operare il bene. Ciò che facciamo influenza il modo in cui gli altri ci percepiscono – un principio valido in ogni ambito, dalla sfera privata a quella pubblica. Un padre che maltratta moglie e figli può ripetere all’infinito «vi voglio bene», ma quelle parole suoneranno vuote, crudele beffa. Allo stesso modo, un religioso che copre abusi nella sua comunità, invece di indagare per tutelare le vittime, non potrà mai convincere nessuno di agire per il bene altrui o di essere degno di guidare una Chiesa moderna.

«Come il corpo senza lo spirito è morto, così la fede senza le opere è morta». Il brano si chiude con questa frase, che rimane difficile da accogliere. Ci sono infatti persone che non possono compiere grandi gesti di bontà – perché malate, o perché lottano ogni giorno per sopravvivere. A loro non si può chiedere l’impossibile. Ma chi può fare qualcosa, dia voce alla sua fede, riempia di vita il messaggio di Gesù facendo il bene.

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Predicazione su Isaia 58, 7-12

in molte chiese al nord oggi è bello entrare in chiesa e sentire profumo di pane, frutta, fiori.

La festa del raccolto ci ricorda che tutto è dono: la terra, la pioggia, il lavoro delle mani. Oggi diciamo grazie a Dio. E mentre lo facciamo, abbiamo ascoltato insieme la voce del profeta Isaia.

Isaia ci scuote un po’, come un vento d’autunno con le sue affermazioni che Dio non guarda solo ai cesti pieni, ma alla pienezza del nostro amore concreto. Il grazie che gli piace è un grazie che si vede nella vita.

Il profeta parla a persone credenti, gente che prega e digiuna. Eppure Dio dice: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio? Dividi il tuo pane con chi ha fame, accogli in casa i poveri senza tetto, vesti chi è nudo” (vv. 6-7). È semplice: condividere il pane, aprire la porta, ridare dignità. Non si tratta di fare grandi cose per un giorno solo, ma di lasciare che la fede scaldi il cuore e apra le mani. Condividere il pane significa non dare gli avanzi, ma il pane buono, quello che mangeresti tu. È dire: “Quello che ho, è anche tuo”. Aprire la casa non vuol dire soltanto avere una stanza libera; è soprattutto aprire un po’ del nostro tempo, ascoltare, far sentire qualcuno accolto. Rivestire chi è nudo non è soltanto consegnare vestiti: è restituire sguardi che dicono “tu vali”, parole che ridanno speranza.

John Wesley lo diceva così: la fede cristiana non vive chiusa in sacrestia, è una fede che tocca la vita sociale. Se il Vangelo scende nel cuore, qualcosa nelle nostre abitudini cambia.

Isaia poi ci mette davanti ad altre “catene” da rompere. Dice: togliete di mezzo il giogo, smettete il dito puntato e il parlare cattivo (v. 9).

Quante volte facciamo male con le parole: mormorazioni, giudizi frettolosi, etichette che inchiodano le persone. A volte una frase fa più male di una pietra. Il “digiuno” che Dio gradisce può essere anche questo: oggi scelgo di non parlare male di nessuno, oggi scelgo una parola gentile.

E poi c’è lo sfruttamento nascosto: quando compriamo qualcosa a un prezzo troppo basso, spesso c’è qualcuno che paga quel prezzo con la sua fatica e con la sua vita. Non possiamo aggiustare tutto, ma possiamo essere un po’ più attenti: scegliere quando possibile prodotti giusti, valorizzare il lavoro onesto, sostenere chi è in difficoltà qui vicino, nel nostro quartiere. Non capita solo “lontano”: anche qui ci sono persone sole, famiglie che faticano ad arrivare a fine mese, ragazzi che cercano una mano.

La fede non è fuga dal mondo. È una luce messa proprio dove c’è buio. I primi metodisti portavano il Vangelo là dove c’era polvere, miniere, fatica. Perché la santità non è isolamento, è vita che profuma di bene nella vita di tutti i giorni: al mercato, a scuola, in fabbrica, in ufficio, in famiglia. La nostra festa di oggi ci invita a questo: ringraziare Dio e, subito dopo, guardare intorno con occhi nuovi.

E qui arriva la parte più bella del testo: le promesse. “Allora la tua luce spunterà come l’aurora” (v. 8). Quando scegliamo la via della giustizia e della misericordia, Dio apre sentieri dove non li vedevamo. “Il Signore ti guiderà sempre, sazierà l’anima tua nei luoghi aridi e darà vigore alle tue ossa” (v. 11). Quante volte ci sentiamo stanchi, svuotati: Lui promette di rifarci forza dentro. “Sarai come un giardino irrigato, come una sorgente d’acqua che non si prosciuga” (v. 11). Dove c’era aridità, ricompare freschezza. E ancora: “Ricostruirai le antiche rovine… ti chiameranno riparatore di brecce” (v. 12). Che titolo meraviglioso! Sembra un nome del futuro, e invece Dio ce lo affida già adesso, come a dire: “Io vedo ciò che puoi diventare con me”. Pensiamo a cosa significa essere “riparatori di brecce” oggi. Non parliamo di muri, ma di relazioni: strappi dentro le famiglie, amicizie incrinate, generazioni che non si capiscono, vicini che non si salutano, ferite con la terra che ci nutre.

Riparare una breccia vuol dire fare un passo di riconciliazione, domandare scusa, tendere la mano per primi, scegliere un po’ di sobrietà per il bene comune. A volte basta poco: una telefonata, un invito a tavola, un “come stai?” detto con sincerità. In una comunità cristiana, questi piccoli gesti diventano una rete che sostiene. E quando questa rete si allarga, si vede davvero la “matematica di Dio”: più condividiamo, più sembra che tutto si moltiplichi. Non diminuisce la gioia, aumenta. Non perdiamo tempo, guadagniamo pace. Non ci impoveriamo, scopriamo che la benedizione gira.

Vorrei che oggi il nostro “grazie” non fosse solo per i frutti. Ma il Signore ci chiede di portare anche il nostro cuore, con le sue paure e i suoi desideri, e di dire: “Eccomi, voglio che il mio grazie si veda nella vita”.

Come? Cominciando da dove siamo: a casa, al lavoro, a scuola, in parrocchia, nelle associazioni del territorio. Non serve aspettare condizioni ideali. Dio non ci chiede perfezione, ci chiede disponibilità. Lui fa il resto. Quando ci sembra di non avere forze, ricordiamo la promessa: “Il Signore ti guiderà sempre”. Non siamo soli. Lui cammina davanti e apre la strada.

Mi piace immaginare così la festa del raccolto: non un museo dove ammirare i doni di Dio, ma un cantiere aperto dove tutti portano qualcosa. Ognuno con ciò che ha: tempo, ascolto, competenze, sorriso, pazienza. C’è chi può dare di più, chi di meno: davanti a Dio vale l’amore, non la quantità. E in questo cantiere non lavoriamo per dovere, ma per gratitudine. Perché abbiamo sperimentato, almeno una volta, che Dio ci ha amati per primo, che ci ha cercati quando eravamo smarriti, che ci ha rimesso in piedi quando eravamo stanchi. Da quella gratitudine nasce tutto. Allora, portiamo al Signore la nostra decisione di essere, con la sua grazia, “riparatori di brecce”. Facciamo spazio a chi è solo. Scegliamo parole che curano. Teniamo gli occhi aperti sulle ingiustizie, vicine e lontane, e proviamo a fare la nostra parte. Se lo faremo, vedremo l’aurora. Non perché siamo bravi, ma perché Dio è fedele. Lui trasforma il poco in molto, le nostre piccole gocce in una sorgente che non si esaurisce.

Vorrei chiudere con una preghiera semplice.

Signore, Padre buono, grazie per la terra, per il pane, per le mani che lavorano. Accendi in noi una gratitudine che si vede, che condivide, che accoglie, che risolleva. Guariscici dalle parole che feriscono e dalle abitudini che fanno male agli altri. Rendici giardini irrigati nel nostro quartiere, riparatori di brecce nelle nostre famiglie e nella nostra comunità. Guidaci tu: quando non sappiamo cosa fare, metti tu una luce davanti ai nostri passi. Nel nome di Gesù, nostra salvezza. Amen.

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Sermone su 1 Pietro 5,5-11

il nostro brano è un insieme di molti pensieri: umiltà, preoccupazione, sobrietà, veglia e diavolo. Tutto sembra un po' sconnesso, ci sono messi insieme dei pensieri senza che a prima vista si possa intravedere un filo rosso. Mi sono quindi chiesto se oggi non abbiamo forse a che fare con un brano scritto proprio per la gente di allora e non per noi, credenti del 2025. L'umiltà, la sobrietà e la libertà dalle preoccupazioni sembrano parole antiche. E cosa facciamo con le parole: il vostro avversario, il diavolo, gira come un leone ruggente cercando chi possa divorare? Questo brano è forse solo un relitto di tempi remoti?

E' così che mi sono avvicinato al testo. Nella mia testa ronzavano le sue parole, la strana frase sul diavolo che gira come un leone ruggente. Meditando così mi è venuta in mente la mia recente visita dal medico per chiedere l'impegnativa dermatologica: c'era un po' di gente, dovevo quindi aspettare. Ho preso una delle riviste tipiche ed ho cominciato a sfogliarla. Dopo un po' ho letto l'indice ed ho visto indicato un articolo sul tema “la felicità” introdotto all'incirca così: “avere tanto denaro impedisce o favorisce la felicità? 20 passi concrete che voi potete fare per essere felici.” Pagina 22 Ho pensato che probabilmente sapevo già tutto ciò che poteva leggere in questo articolo, perché ci sono tante riviste che vogliono dare delle ricette per la felicità. Visto però che c'erano ancora delle persone prima di me, ho deciso di vedere se l'articolo potesse essere interessante. Ho sfogliato la rivista, ma qualcosa non andava: la numerazione finiva con la pagina 20 e riprendeva a pagina 29. Qualcuno aveva strappato le pagine della rivista sulla felicità. Ci sono quindi persone talmente interessate alla loro felicità che strappano le riviste altrui. Ci sono persone alla ricerca pronte a portarsi a casa un articolo per leggerlo con calma.

Forse questa persona sente un vuoto nella sua vita e vuole riempirlo di felicità. Altrimenti non avrebbe strappato 8 pagine da una rivista esposta in un ambulatorio.

Io quindi non ho potuto leggere l'articolo. Ma torniamo al nostro brano. Mettendo insieme il brano con questa persona ignota che ha strappato dalla rivista 8 pagine sulla felicità per trovare la sua felicità, mi è venuta in mente una idea su ciò che il brano può dire a noi. Sia l'articolo della rivista che il nostro brano hanno in comune il tema della preoccupazione per una vita felice.

Per sviluppare il tema comincio con il versetto che sembra lontano anni luce dalla nostra esperienza:

8 Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, gira come un leone ruggente cercando chi possa divorare.

E vi domando: chi sono i vostri avversari che mettono a rischio la vostra pace interiore? Che nomi hanno i vostri diavoli? Vi nomino alcuni dei miei: “devo essere presente”, “senza di me le cose non funzionano”, “non va”, “devo esserci”, “non ce la faccio”, “Come andrò avanti?”, “devo ... devo ... devo”, “non sono all'altezza delle aspettative”

Vi è mai capitato di essere ammalato, ma invece di stare al letto siete andati al lavoro perché non potete mancare? Quante volte non fate ciò che vorreste fare? Conoscete delle parole che vi scoraggiano e fanno sì che non riuscite a lavorare bene? Ricordate delle notti passate nell'insonnia a causa di tanti, troppi pensieri? Questi sono i nostri avversari che ci rubano la forza. Più mi perdo in tali pensieri, più scoraggiato mi sento e il paragone con il leone ruggente non è più così estraneo: ci sono pensieri che ci divorano, ci incastrano, ci rubano la nostra libertà e soprattutto la nostra felicità, e perciò dice il nostro testo:

Siate sobri, vegliate;

E così vogliamo essere: sobri e attenti per trovare nel nostro brano una chiave per una vita riuscita. In fondo le chiavi sono tre:

1. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio

Questa frase la intendo così che non devo avere un concetto troppo alto di me.

Certo, ci sono cose che dipendono da me, ma ci sono tante altre cose che non posso influenzare minimamente. Il contadino può seminare ma non è nelle sue mani la quantità del raccolto. Operai e impiegati possono dare tutto al loro posto di lavoro, ma non è nelle loro mani se l'azienda esisterà ancora fra 5 anni. Possiamo vivere coscientemente in modo sano con la dieta giusta e con un po' di attività fisica, ma la nostra salute non è nelle nostre mani. I genitori possono educare nel modo migliore i loro figli, ma non è nelle loro mani il loro destino. Possiamo dare un consiglio ad un amico, ma non è nelle nostre mani se lui lo segue.

Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio vuole quindi dire: date il vostro meglio ma non cadete in tentazione di pensare di essere divini, di farcela senza Dio, di essere autosufficienti.

2. Gettate su di lui ogni vostra preoccupazione

Qui l'autore parla della preghiera. Se riusciamo a capire di non dover farcela da soli, se riusciamo a rapportarci invece con Dio, le nostre preoccupazioni diminuiranno. La preghiera libera, la preghiera rende meno pesante la vita perché la preghiera è l'espressione migliore di una relazione riuscita con Dio. E tutto ciò non solo quando ci sentiamo impotenti, la preghiera vuole essere continua come è continua la comunicazione in una relazione d'amore riuscita. Crescerà la fiducia e la certezza di non essere soli.

3. Siate sobri, vegliate;

Dio, quando entriamo in relazione con lui, quando smettiamo di voler essere o di pensare di essere il centro, l'ombelico del mondo, ci apre gli occhi, le orecchie, la mente, affinché vediamo il mondo come lo vede lui per diventare portatori di un amore che libera.

Guardiamo le persone, i luoghi, le possibilità, il nostro presente, i nostri impegni, la natura e vediamo in tutto ciò che percepiamo un segno dell'amore di Dio.

Facendo così la nostra esistenza diventa vitale per noi e per altri.

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predicazione su 1 Pietro 5,5-11

A volte mi sembra che tutto, attorno a me, diventi più rumoroso e più accecante.
Mi mancano i toni sommessi, le immagini delicate, le sfumature tra il bianco e il nero, tra il sì e il no, tra il mio e il tuo.
La retorica del potere, con le sue parole di potere, mi schiaccia.
E mi chiedo: questo contamina anche me? Mi unisco anch’io a quel coro, senza volerlo, senza accorgermene? Quando scrivo, non voglio ferire con le parole. Quando parlo, non voglio coprire la voce degli altri. E non voglio che gli altri lo facciano con me. Cerco il fine nel grossolano che mi circonda: il sensibile e il sottile, il sovversivo e il sobrio. Sento che il tono si è fatto più duro: in politica, nei media, nella vita di ogni giorno.
Troppe cose suonano come slogan da bar, intrisi di birra; io invece anelo all’aria meditata di uno studio.
Intorno a me vedo un continuo riarmo, verbale e mediatico.
Immagini potenti e simboliche mi saltano agli occhi: Trump cavalca il leone; Putin l’orso, e pure la tigre.
Questa messa in scena di maschilità tossica mi irrigidisce, mi respinge.
Io ho bisogno anche del tenero, del fragile, del lacerato.
Non solo «Basta», ma a volte anche «forse».
Non sempre rifiutare e zittire, ma anche valutare.
Non voglio mettere tre punti esclamativi dopo ogni frase.
A volte voglio lasciare un punto interrogativo.

«Non è il momento» — mi dice un amico.
«Lo vedi: l’aria è tesa e arroventata. Ora bisogna esporsi con coraggio, mostrare forza, prendere posizione chiara. “Qui sto, non posso fare altrimenti.” Se no finisci al tappeto. Ci vuole il cuore del leone, il coraggio del leone. Devi ruggire più forte degli altri. Altrimenti non ti ascoltano, non ti vedono, ti passano sopra».
Io non voglio ruggire.
Voglio cantare.
Voglio consolare.
E, a volte, tacere. «Il vostro avversario va attorno come un leone ruggente» È un’immagine forte.
Una situazione bruciante. Fa paura.
Se un leone ruggisce, non voglio essergli vicino; e se si avvicina da dietro in silenzio, ancora meno. Ma il leone, in sé, non è cattivo.
Rappresenta coraggio, forza, potenza.
È un animale araldico amato. Un animale di potere.
Nella mitologia egizia, la Sfinge ha corpo di leone.
Nelle visioni bibliche del carro celeste, il leone esprime la forza straordinaria del divino.
Serve a illustrare il vigore degli eroi, dei giusti, di Gesù e di Dio stesso.
Eppure ciò che rende grande il leone può essere piegato al male.
Mi sono avvicinato al leone con cautela e curiosità.
La Bibbia lo dipinge anche come animale possente, spesso violento.
Strappa capi dalle greggi.
Il suo ruggito è come un tuono.
Esce dal folto e sta in agguato nei nascondigli; la sua violenza è devastante.
Gli oppressori sono paragonati a leoni: ricchi che sfruttano i poveri, popoli nemici che minacciano Israele, potenti che perseguitano i giusti.
Il leone è ovunque.
È un avversario forte. Sconfiggerlo rientra tra le dodici fatiche di Ercole.
Il leone è re degli animali. Predatore. Combattente.
Come l’orso e la tigre.
Chi punta su queste immagini — o ci “sale sopra” — è pronto allo scontro: «Il vostro avversario va attorno come un leone ruggente».
Come si doma il leone?
Come si vive sotto minaccia?
Mi sono accostato all’arte di domare il leone con curiosità e desiderio di capire. Quando fu scritto 1 Pietro, i cristiani erano perseguitati.
Esposti alla violenza.
Alla potenza ostile.
E alla propria debolezza.
Il leone rappresenta il male pericoloso, ma anche l’aggressione e la repressione dello Stato.
Nerone, persecutore dei cristiani, fu visto come un leone. Tiberio anche.
Paolo fu «strappato dalla gola del leone».
In Apocalisse, un mostro con fauci di leone si alza contro la Chiesa. Come si vive questa minaccia?
In 1 Pietro trovo risposte che oggi danno forza.
Possono spezzare la spirale dell’esibizione di dominio e delle minacce.
Possono fermare la gara senza fine dove vince il più forte, ha ragione il più rumoroso, conta chi “ha sempre ragione”.
C’è un’altra via.
Non è necessario scendere nell’arena contro il leone, occhio per occhio, dente per dente.
Non dobbiamo ruggire nella sua bocca, diventando come lui.
«Non sono sempre i rumorosi a essere forti, solo perché fanno rumore. Molti vivono, in silenzio, una vita più vera (…) Non scrivono canzoni: sono melodia. Camminare così diritto, non imparerò mai». «Sapendo che le stesse sofferenze toccano ai fratelli e alle sorelle nel mondo» Empatia e solidarietà sono chiavi decisive per vivere “nell’occhio del leone”.
La minaccia non colpisce solo me.
Altri passano ciò che passo io.
Questo può essere un’opportunità, ma anche un pericolo.
Restare uniti di fronte al pericolo non è scontato.
La paura avvelena le relazioni.
Semina diffidenza.
Raccoglie odio.
Se accade, il leone ha vinto.
Non deve più ruggire né tendere agguati.
La paura ha fatto il lavoro del leone.
Gli basta aspettare. Poi colpisce. Ma non è inevitabile.
Si può restare uniti.
Sostenere insieme la prova.
Sostenersi a vicenda.
Tenere piccola la paura.
Insieme si affronta meglio il dolore.
Insieme si può mettere il leone al guinzaglio.
Domarlo.
Togliere i denti.
Un proverbio etiope dice: «Se molte ragnatele si intrecciano, possono legare il leone».
Non siamo costretti a vincere il leone con la violenza.
Possiamo domarlo.
Chissà: forse il leone non è immune al bene.
Forse la bontà lo contagia.
Forse il superbo diventa mansueto, il nemico amico.
«La bontà può strappare un pelo dai baffi del leone» (proverbio africano).
Non sempre funziona.
A volte sì.
Alla fine, funzionerà sempre.
Quando la bontà di Dio dilagherà e farà bene a tutti e a tutto.
Alla fine dei tempi sarà così:
«Il lupo dimorerà con l’agnello… il vitello e il leone pascoleranno assieme, e un piccolo fanciullo li guiderà… e il leone mangerà paglia come il bue». «Resistetegli stando fermi nella fede» Fiducia, non paura.
Anche questo salva e fa vivere.
La paura ingrandisce il leone.
Rende passivi o aggressivi.
Paralizza.
O ci fa correre verso il coltello.
Così la paura ci divora prima ancora del leone. C’è un’alternativa.
1 Pietro ci incoraggia a confidare in Colui che è più forte di tutti i leoni.
«Gettando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi» (1 Pietro 5:7, NR).
«A lui sia la potenza nei secoli dei secoli» (5:11, NR).
Il ruggito non è l’ultima parola.
Su questo confido.
Per questo oso vivere.
L’ultima parola ce l’ha Dio.
Non la sento come un decreto urlato dal cielo.
Piuttosto come una melodia lieve, che arriva da lontano, come l’eco di un amore.
Colui che ha la prima parola, ha anche l’ultima.
Questo cambia tutto.
Non devo irrigidirmi per la paura.
Né correre, per paura, nella tana del leone.
Posso camminare.
Andare incontro al futuro di Dio.
Mi affido a Colui che mi muove.
E che mi sostiene quando cado.
«Cadiamo tutti. Questa mano cade.
Guarda gli altri: è in tutti.
Eppure c’è Uno che tiene questa caduta, infinitamente dolce, nelle sue mani» (R. M. Rilke).
«Il SIGNORE sostiene tutti quelli che cadono e rialza tutti gli oppressi». «Nel giorno che avrò paura, io confiderò in te». «Siate sobri e vigilate» Vigilanza e attenzione salvano in terra selvaggia.
Si può affrontare il leone con l’astuzia della volpe.
Non c’è bisogno di cadere nella sua trappola. La favola antica lo sa.
Un leone, invecchiato, non riusciva più a cacciare.
Invitò gli animali nella sua tana e li divorò uno dopo l’altro.
Anche la volpe arrivò, ma rimase fuori, in guardia.
Il leone la chiamò con voce suadente: «Entra anche tu».
La volpe rispose: «No, non mi fido. Ho visto molte orme entrare, nessuna uscire».
Non cadde nell’inganno.
Perché era prudente.
Perché seppe attendere.
«Siate sobri, vegliate…».
Che il leone ruggisca o che adeschi con parole melliflue, state desti.
Non cascate nel ruggito.
Non tutto ciò che è gridato è vero.
Non lasciatevi intimorire.
Non serve chinare il capo a ogni ruggito.
Con intelligenza si smascherano frasi vuote e rumorose.
E non ci si lascia incollare alla loro colla.
«L’intelligenza non paralizza, non indebolisce, non frena. Vi stupirete!
Non sono sempre i rumorosi a essere forti.
Molti saggi, nonostante tutto, riescono a sopravvivere. E a far vivere. Come si vive, come si sopravvive, come si vive insieme “nell’occhio del leone”?
Forse serve tutto insieme: la prudenza del serpente e la semplicità della colomba.
La fiducia degli uccelli del cielo e la bellezza dei gigli dei campi.
«Gettando su di lui ogni vostra preoccupazione».
Le domande dei primi cristiani sono ancora attuali.
Così le loro risposte.
La minaccia ci sfiora da molte parti: crisi, guerre, lotte culturali.
È diventato tutto rumoroso.
La società è polarizzata.
Eppure credo che la pragmatica risolva meglio dei populismi.
Che le idee ci facciano avanzare, non le ideologie.
Che il pensiero e il dialogo ci facciano bene.
E l’umiltà.
«Rivestitevi tutti di umiltà…». Non ho bisogno di ruggire.
C’è un’altra via.
Mi affido alla tenuta delle ragnatele sottili.
Punto sulla scaltrezza delle volpi e sul coraggio dei terrier.
Vado avanti, fermo nella fede.
«Nel giorno che avrò paura, io confiderò in te».
Così vivo. E non voglio vivere altrimenti.

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Film documentario sui Magredi

I millenari cicli glaciali, l’azione di fiumi e torrenti, il lento costituirsi di un sottile strato fertile sugli immensi depositi di ghiaie e pietrame grossolano, hanno plasmato nella pianura friulana un ambiente naturale unico e di inestimabile valore: i Magredi.

Prodotto dalla Regione Friuli Venezia Giulia il documentario realizzato da Ivo Pecile e Marco Virgilio racconta un anno trascorso nei Magredi, seguendo il ciclo della vita dei prati stabili, le spettacolari fioriture e il prezioso lavoro degli insetti impollinatori, incontrando custodi della memoria e protagonisti dello sviluppo presente e futuro di queste terre.

La storia evolutiva delle terre magre friulane, la loro straordinaria biodiversità e il rapporto con le attività dell’uomo costituiscono la trama di questo viaggio intenso negli sconfinati paesaggi dove, camminando immersi nei suoni della natura, possono risuonare i nostri più intimi viaggi dell’anima.

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Sermone su Marco 3,31-35

Quando l’uomo viveva ancora in comunità di cacciatori e raccoglitori, la vita familiare – almeno come la intendiamo oggi – praticamente non esisteva. Erano le tribù, i gruppi, a prendersi cura dei bambini. C’era una sorta di sistema di assistenza condivisa: tutta la comunità era un punto di riferimento per il bambino.

Con il tempo però, le cose sono cambiate. A un certo punto è diventata la famiglia più ristretta – e in particolare la madre – ad avere il ruolo centrale nello sviluppo dei figli. Questo modello, in linea di massima, è rimasto fino ai giorni nostri.

Certo, anche la nostra società si è evoluta. Oggi, ad esempio, esiste in alcuni paesi il congedo parentale sia per le madri che per i padri – anche se questi ultimi lo sfruttano ancora poco. Inoltre, i bambini possono andare al nido già sotto i 3 o addirittura sotto i 2 anni. L’educazione al di fuori della famiglia diventa così un tema sempre più importante. E c’è chi – non solo tra i sociologi – si chiede: fino a che punto un bambino può avere molteplici figure di riferimento senza che questo lo confonda o lo danneggi?

Di Gesù, purtroppo, sappiamo poco sulla sua infanzia. I Vangeli non ci dicono molto. Se seguiamo Matteo, Gesù avrebbe passato i primi anni in Egitto. Dopo la morte di Erode, torna con i genitori in patria. Ma la sua infanzia rimane avvolta nel mistero. Luca racconta solo un episodio, quello del dodicenne nel tempio – e poi, silenzio.

Eppure, già lì si intuisce qualcosa che poi diventerà evidente nel passo evangelico di questa domenica: Gesù aveva una figura di riferimento ulteriore, oltre ai suoi genitori e fratelli. Una figura che allarga il concetto stesso di famiglia. Questa figura è Dio – che lui chiama suo Padre. Certo, oggi non ci sorprende: siamo abituati a pensare a Gesù come Figlio di Dio. Ma come dev’essere stato per la sua famiglia accorgersi che il proprio figlio prendeva sempre più le distanze? Che si faceva delle idee sue? Che stava seguendo un cammino che nessuno riusciva veramente a capire? Come si sente un padre che si ritrova all’improvviso a fare la figura del terzo incomodo? O una madre, vedendo che suo figlio si espone pubblicamente al rischio di essere preso per pazzo religioso? O i fratelli e le sorelle, che vedono Gesù preferire la compagnia di pubblicani e pescatori invece di condurre una vita “normale” con loro?

Il Vangelo di Marco, ad esempio, ci mostra chiaramente il disagio e le incomprensioni che la famiglia di Gesù ha dovuto affrontare, quando si è resa conto che quel ragazzo aveva ricevuto una chiamata particolare. E forse noi possiamo capirlo meglio se pensiamo ai nostri figli, quando crescono. Quando iniziano a prendere le distanze, a fare scelte che non capiamo, magari che ci preoccupano. Quando pensiamo: “Ma dove sta andando?”, “Ma che sta facendo?” E cerchiamo, con tutte le buone intenzioni, di riportarli alla “ragione”, anche se hanno 10, 20 o – come Gesù in quel momento – 30 anni. Chi può biasimare Maria e i suoi figli per aver tentato di farlo?

Ma Gesù approfitta proprio di quel momento – dell’arrivo della sua famiglia – per dire chiaramente come la pensa lui su cosa sia la famiglia. E dice: «Chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, quello è per me fratello, sorella, madre». Una frase che all’epoca doveva suonare fortissima! Non è il sangue a determinare chi fa parte della mia comunità. Non la discendenza, non la nazionalità, non il ceto sociale, neanche la religione! E nemmeno l’osservanza di regole o tradizioni religiose! Conta solo una cosa: seguire la volontà del Padre.

E qui, naturalmente, sorge la domanda: qual è questa volontà? Beh, su questa domanda si sono divise tante persone. Si sono formate correnti, dottrine, si sono costruiti sistemi teologici complicati, e perfino guerre si sono combattute. Forse, anche in questo caso, dobbiamo avere uno sguardo ampio, aperto. La volontà di Dio, lo vediamo in Gesù, ha a che fare con l’amore. Quell’amore di cui lui parlava sempre e che lui stesso ha vissuto in prima persona.

Un amore che non imprigiona, ma libera. Che non distrugge, ma costruisce. Che non giudica, ma accoglie. Che non mette paletti, ma apre strade. Può sembrare poco, ma in realtà… è tutto.

Esporsi a questo amore, fidarsi, lasciarlo agire nella propria vita – questo è ciò che ci rende ancora oggi una famiglia. Indipendentemente da dove veniamo, da chi siamo, da quello che abbiamo fatto o non fatto. L’unico “criterio” è: vivere secondo l’amore di Dio, così come ci è stato mostrato da Gesù.

E tutto questo va contro quelle idee nazionaliste o “etniche” che oggi, purtroppo, stanno tornando in tanti Paesi d’Europa. Non c’entrano niente con un’idea cristiana di “Occidente”. Perché chi fa parte della famiglia di Dio non si decide col DNA.

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Predicazione su Atti 3,1-10

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Salve fratelli e sorelle,

oggi voglio raccontarvi la mia storia. Sì, la mia. Sono quello che tutti chiamano “lo zoppo davanti alla porta Bella del tempio”.

Sono zoppo dalla nascita. Non so cosa voglia dire correre libero, saltare, camminare senza dolore. Ogni giorno qualcuno mi porta qui, davanti alla porta del tempio. Qui sto seduto, con la mano tesa. Aspetto… Aspetto qualche moneta, qualche attenzione. Aspetto che qualcuno si accorga di me.

Ogni giorno, il sole batte sul mio volto, e sento la polvere della strada tra le dita dei piedi. I bambini corrono davanti a me ridendo, e io… io posso solo guardarli. Le loro voci mi raggiungono, ma non posso giocare con loro. Le preghiere dentro il tempio salgono verso il cielo insieme al fumo dei sacrifici e io resto qui… invisibile, in silenzio. La mia vita è fatta di attese. Guardare la gente entrare nel tempio e non poter andare con loro fa male. Sento che non appartengo. Sono invisibile. Solo.

Un giorno vedo due uomini salire verso il tempio. Li conosco: sono Pietro e Giovanni, in altri tempi sono saliti insieme ad altri e a Gesù.

Istintivamente allungo la mano. Sto per chiedere elemosina, come faccio sempre. Ma loro non si limitano a guardarmi di sfuggita. No. Pietro mi fissa negli occhi. “Guardaci!”, mi dice.

È la prima volta che qualcuno mi guarda davvero. Non come uno zoppo, non come un mendicante, ma come persona. Sento il cuore battere forte. Poi mi dice: “Dell'argento e dell'oro io non ne ho; ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!”

All’inizio non capisco. Cosa vuole dire? Non ha soldi da darmi… ma qualcosa mi raggiunge dentro.

Sento la sua mano che mi prende e mi solleva.

E qualcosa di incredibile accade: i miei piedi e le mie caviglie diventano forti. Posso stare in piedi. Posso muovermi. Posso camminare. All’inizio cammino lentamente, quasi incredulo. Un passo… due passi… poi il cuore batte più forte… un balzo!

Posso correre, saltare, sento una gioia che non avevo mai conosciuto. Posso entrare nel tempio. Posso partecipare alla vita. Non più seduto davanti alla porta, non più escluso, non più solo.

Sento il vento sul viso, il sangue che scorre nelle gambe, l’energia che invade tutto il corpo. Ogni passo è un inno di lode.

Vedo le persone intorno a me: la loro sorpresa, lo stupore, il sorriso negli occhi. La mia gioia diventa contagiosa, segno che qualcosa di grande è avvenuto.

Questa esperienza mi ha insegnato tre cose:

1. Guardare qualcuno davvero cambia la vita Prima ero invisibile. Ora qualcuno mi vede, mi riconosce. Uno sguardo può aprire la strada alla speranza.

2. Il vero dono non è ciò che si dà con le mani, ma con il cuore e con Dio Pietro non aveva monete, ma aveva Cristo. E quel dono ha trasformato tutta la mia vita.

3. La gioia è contagiosa: Saltando e lodando Dio, vedo la meraviglia negli occhi della gente. La mia gioia diventa testimonianza, segno per gli altri.

Questa storia non è solo un mio ricordo che per voi ormai è duemila anni fa. È un messaggio per voi oggi.

Quante volte vi sentite “fuori”, bloccati, invisibili. Quante volte aspettate solo qualche “elemosina”, qualche piccola consolazione. Ma Dio vi offre di più: una vita nuova, una speranza che non si ferma alle ferite e alle mancanze.

Chi tra voi oggi si sente invisibile? Chi ha bisogno di una mano tesa? Chi attende che qualcuno lo guardi davvero?

Anche voi potete tendere la mano, anche voi potete essere Pietro o Giovanni. Non serve avere oro o argento. Basta guardare, ascoltare, accompagnare, condividere Cristo.

Oggi sono qui davanti a voi, non più zoppo, non più escluso, pieno di vita. E vi dico: aprite gli occhi sugli altri, tendete la mano, date quello che avete. E soprattutto, portate Cristo.

Perché chi incontra Cristo, anche nei giorni più difficili, può rialzarsi, camminare e saltare di gioia.

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Pensieri sul versetto del mese di settembre

C’è una parola che oggi ci accompagna più spesso di quanto vorremmo ammettere: paura. È una presenza silenziosa ma insistente.

A volte si fa sentire in modo diretto – davanti a una diagnosi, a una notizia preoccupante, a un imprevisto economico – altre volte serpeggia sotto la superficie, come un’ombra che ci segue. Paura del futuro, dell’instabilità, della solitudine, del fallimento. Viviamo in un mondo che, senza volerlo, alimenta continuamente la paura. E chi ci governa fa leva su questa paura per giustificare l’ingiustificabile, armarsi, spendere cifre astronomiche per fare guerra lasciando sul lastrico milioni di persone che di nuovo crea paura. Un circolo vizioso usato ad arte.

Quando abbiamo paura, cerchiamo rifugi. È naturale. Ma non tutti i rifugi sono sicuri. Alcuni sono solo illusioni: cose che promettono pace e sicurezza ma che, al momento del bisogno, crollano. Il salmista ci invita a rivolgerci a Dio stesso come rifugio. Non a ciò che possiamo costruire, comprare o controllare, ma a Lui. E aggiunge che Dio non è solo rifugio, ma anche forza. Non solo ci accoglie, ma ci sostiene. Non solo ci protegge, ma ci dà energia per andare avanti. Nel Nuovo Testamento vediamo questa verità incarnata in Gesù.

Quante volte dice: «Non temere», «Non abbiate paura», «Pace a voi». I discepoli, come noi, avevano mille motivi per avere paura: del mare in tempesta, dei nemici, del futuro, della croce, della persecuzione. Ma ogni volta che incontrano davvero Gesù, la paura si trasforma. Non perché le circostanze cambiano sempre, ma perché la presenza del Signore cambia loro.

Pensiamo a quando i discepoli sono chiusi nel cenacolo, per paura dei Giudei (Giovanni 20). Hanno visto il loro Maestro morire. Tutto sembra finito. Ma Gesù entra – proprio lì, nel mezzo della loro paura – e dice: «Pace a voi». E la paura comincia a perdere potere. O pensiamo a Paolo, che scrive dalla prigione, eppure parla di gioia, di forza, di speranza. La sua sicurezza non viene dalle mura esterne, ma dalla presenza interiore di Cristo.

La paura, quando guida le nostre decisioni, è sempre una cattiva consigliera. Spinge a chiuderci, a difenderci, a sospettare. Ci fa vedere gli altri come minacce, il futuro come un nemico, Dio come lontano. Ma la Parola ci mostra un’altra strada: quella della fiducia. Non cieca, non ingenua, ma radicata in un Dio che è rifugio reale e forza viva.

Questo non significa che non proveremo più paura. Anche i più forti nella fede l’hanno provata. Ma possiamo imparare a non lasciarci guidare da essa. Possiamo scegliere di fermarci, respirare, e ricordare: Dio è per noi. Non contro, non indifferente, ma per noi. E se Dio è per noi – come dirà anche Paolo ai Romani – chi sarà contro di noi?

C’è un grande sollievo nel sapere che, qualunque cosa accada, abbiamo un rifugio sicuro e una forza che non dipende da noi. In un mondo che cambia, Lui resta lo stesso. In un tempo segnato dalla paura, la Sua presenza può riportare la pace, una pace che caccia via la paura e toglie alla guerra e alle ingiustizie la ragion d’essere.

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